venerdì 5 ottobre 2018

Berlino: Movimenti migratori in Europa e Nuova emigrazione italiana in Germania


 

 

Domenica 23-9-2018, si è svolto a Berlino, organizzato dal circolo Filef “Carlo Levi”, un’incontro sull’emigrazione in Europa e sulla nuova emigrazione italiana in Germania. L’occasione è stata offerta dal lancio del progetto di orientamento e di assistenza ai nuovi giovani italiani che raggiungono fin dall’inizio del decennio in modo massiccio la capitale tedesca alla ricerca di lavoro. Il progetto sarà svolto in collaborazione dell’Arbeitswohlfart (AWO), la storica fondazione di assistenza del movimento operaio tedesco nata all’inizio del ‘900 ed attiva in tutta la Germania in molti settori di attività, in gran parte gestiti su base di volontariato.

L’incontro si è svolto nella sede dell’Arbeitswohlfart di Friedenau, uno dei municipi più importanti di Berlino, alla presenza di oltre 50 partecipanti italiani e tedeschi provenienti da Berlino e da altre città della Germania, tra cui parlamentari e attivisti della SPD e della Linke nazionali e del Land di Berlino, di rappresentanti dei sindacati e patronati italiani (Inca-Cgil e Ital-Uil), dell’Arbeitswohlfart di Berlino, di rappresentanti di partito e di operatori sociali.

Gianfranco Ceccanei e Guente Freier, del circolo Carlo Levi, hanno svolto le introduzioni alla discussione, cui sono seguiti il saluto di Diana Giannone, giovane rappresentante della SPD di Friedenau e le relazioni di Thomas Hippe, responsabile dell’AWO di Berlin-Friedenau (Soziale Projecte der AWO Berlin und Chancen zur Verbesserung des Zusammenlebens zwischen Deutchen und Italienern) e di Rodolfo Ricci della Filef nazionale che ha esposto un quadro delle dinamiche migratorie intereuropee e dei loro effetti sull’evoluzione politica nei diversi paesi europei in particolare tra paesi centro europei e paesi dell’est e del mediterraneo.

Sono seguiti gli interventi di diversi esponenti della realtà sociale e politica berlinese e di altre città tedesche tra cui quello di Luigi Brillante, responsabile dell’Inca Cgil Germania, giunto da Francoforte.

La traduzione dei diversi interventi è stata realizzata da Tanino Bellanca e Gerda Dicke, del Circolo Carlo Levi.

E’ seguita una performance musicale di Francesco Casula, e una degustazione di cucina siciliana preparata dal Ristorante “Il Brigantino”.

Di seguito pubblichiamo la relazione svolta da Rodolfo Ricci della Filef nazionale che ha sottolineato in particolare la distonia di una discussione politica e dell’opinione pubblica europea centrata essenzialmente sui flussi immigratori extraeuropei, mente si ignora, forse volutamente, che i movimenti migratori nel continente sono costituiti per ben due terzi da movimenti inter-europei, i quali vengono facilmente archiviati sotto la categoria di “libera circolazione”, mentre i dati disponibili mostrano con evidenza che si tratta di un’emigrazione causata dai fortissimi squilibri economi e sociali interni alla U.E.- Altro dato significativo è quello relativo alle insorgenze di xenofobia e razzismo che sembrano manifestarsi con maggiore virulenza nella aree e nei paesi che subiscono maggiori flussi di emigrazione in uscita, piuttosto che da flussi di immigrazione.

 


 

 

“Movimenti migratori e Europa”

R.Ricci, Filef Nazionale – Bozza non corretta

 

Circolo Carlo Levi / AWO 

Berlino 23 Settembre 2018

 

 

Cari amiche ed amici,

è un piacere avere questa occasione di nuovo incontro e di riflessione comune con voi, dopo quella di alcuni anni fa in Italia.

Nel frattempo la situazione sociale e politica è in rapido cambiamento in tutti i paesi e ci troviamo di fronte alla riemersione di fenomeni di xenofobia, razzismo e chiusure identitarie un po’ dovunque.

In Italia, il sistema politico che ha retto il paese per oltre 20 anni in un’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra è miseramente crollato nelle elezioni dello scorso 4 marzo.

L’opinione pubblica si è massicciamente indirizzata verso forze politiche in parte nuove che hanno raccolto gli elementi di scontento e di protesta, di rancore sociale, e il cosiddetto bisogno di “sicurezza” e “protezione” che emergono da gran parte della popolazione.

Dopo circa 4 mesi dal suo insediamento, il nuovo e governo “giallo-verde” (dove per giallo si intende il Movimento 5 stelle e per verde la Lega), pur nelle sue forti contraddizioni, disomogeneità e atteggiamenti demagogici, ha il consenso del 65% dell’elettorato potenziale. Quindi la base sociale che ne ha consentito la nascita, si è ulteriormente ampliata.

Le forze progressiste e di sinistra si trovano in una situazione di ampio disorientamento e si può anche dire, in una strutturale incapacità di imbastire una opposizione credibile e coerente.

Tra sette mesi avremo l’appuntamento delle elezioni europee ed è facile ipotizzare che gli equilibri interni al Parlamento Europeo saranno quantomeno scossi.

Tra le questioni che fanno volare le forze delle nuove destre in tutti i paesi c’è sicuramente “la questione immigratoria”.

Essa viene usata come elemento di ricomposizione e di compattazione di un blocco sociale aggredito dalla grande crisi economica che ormai ha superato i 10 anni, e individuata come uno dei principali rischi per coloro che percepiscono il futuro in una dimensione di instabilità, di precarietà, di insicurezza sociale e di vita; si tratta della maggioranza delle persone.

Le sinistre non sono in grado di ribaltare e di rendere egemone una lettura diversa: la creatura che l’Europa ha partorito, non è frutto dell’invasione dei nuovi barbari, ma di una crisi capitalistica che in questi anni ha trasferito immense ricchezze in sempre meno mani e ha, parallelamente, impoverito la grande maggioranza delle persone. Viviamo cioè un classico momento di “spostamento”, in termini psicosociali, e di fuga dalle ragioni reali delle contraddizioni, alimentata anche da una narrazione mediatica ad hoc.

Ed anche se in molti possono condividere e condividono una lettura critica della realtà e sanno chi sono i responsabili della crisi, la immediatezza dei bisogni del presente e la difficoltà di vedere la possibilità di un mutamento strutturale a breve termine, fanno sì che una alternativa di sinistra non emerga.

Anche perché le forze di centro-sinistra sono individuate, a ragione, tra le responsabili dello stato di cose presente.

 

***

Pur nella sua gravità, il momento storico che attraversiamo è opportuno per riprendere una riflessione e una discussione, da tempo abbandonata e marginalizzata; anzi, si tratta forse di una necessità fondamentale se vogliamo recuperare efficaci strumenti di azione sociale e politica.

In questo senso, vi propongo una possibile lettura degli eventi a partire proprio dalla questione migratoria, nelle sue due componenti, immigrazione ed emigrazione che si sono sviluppate e si declinano diversamente in ciascun paese di questa nostra Europa.

Per esempio per l’Italia non è solo importante il fenomeno immigratorio, ma anche la nuova emigrazione italiana, che è una delle questioni centrali del lavoro che ha portato avanti in questi anni la Filef fin dai primi anni di questo decennio, da quando cioè l’emigrazione dall’Italia ha ricominciato a crescere sensibilmente fino a raggiungere negli anni che vanno dal 2013 al 2017, circa 300mila espatri all’anno: una quantità che non si registrava dagli anni ’60 del ‘900. Circa un quarto di questi espatri sono arrivati in Germania e un quinto in Gran Bretagna.

I nuovi flussi in uscita sono costituiti prevalentemente da giovani con livelli di formazione mediamente elevati (circa il 30% di laureati e il 35% di diplomati).

Le istituzioni e la politica italiana non ha ancora preso in seria considerazione questo fenomeno; tantomeno le istituzioni europee. Perché bisogna ricordare che la nuova emigrazione parte non soltanto dall’Italia, ma anche dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia e da tutti i paesi dell’est-Europa. E va essenzialmente verso il centro-nord del continente, cioè verso la Germania, la Svizzera, la Gran Bretagna, l’Olanda, il Belgio e la Francia, oltre che verso il Nord America, l’Australia e ad alcuni altri paesi dell’est asiatico.

L’Europa non si occupa della questione perché si tratta, formalmente, di “libera circolazione”; noi pensiamo che invece questa circolazione non sia così libera come si vuol dare a credere, ma sia piuttosto alimentata dai grandi movimenti e concentrazione di capitali e dal parallelo riposizionamento delle economie nazionali in questi anni di crisi globale.

La nuova emigrazione inter-europea è un esempio valido di cosa accade quando a ‘governare’ ci sono solo i mercati e la politica non fa il suo dovere di governance positiva, cioè di riequilibrio tra ragioni di scambio e di coesione sociale di uno spazio comune.

Per quanto riguarda l’Italia, si tratta di una entità che è il doppio ed oltre degli attuali arrivi di profughi e migranti economici, ovvero dell’immigrazione nel suo complesso, sulla quale si concentra la discussione politica e istituzionale nei modi che abbiamo accennato.

La presenza italiana all’estero, riferendoci ai dati delle anagrafi consolari, ha ormai superato nettamente lo stock di immigrazione (che è di circa 5,2 milioni di immigrati), raggiungendo i 5,7 milioni di emigrati, con un aumento del 100% negli ultimi 15 anni e di oltre un milione e centomila solo negli ultimi 5 anni. A questi è verosimile che bisognerebbe aggiungere un altro milione ed oltre di giovani e meno giovani che, per ragioni a noi note, non vengono censiti dalle statistiche. Stiamo dunque parlando di circa 7 milioni di italiani tra vecchia e nuova emigrazione, cioè di oltre il 10% della popolazione italiana.

Mentre la somma di immigrati ed emigrati raggiunge circa il 20% dell’intera popolazione del paese, a conferma che l’Italia è un crocevia migratorio con caratteristiche uniche nel panorama europeo, mentre si situa all’8° posto nel mondo per entità di flussi di emigrazione in uscita.

Di fronte a questi dati è davvero sorprendente e per certi versi incomprensibile che la discussione pubblica sui movimenti migratori si sviluppi nei modi che conosciamo e che, allo stesso tempo, si ignori completamente la dimensione della nuova emigrazione italiana che, come voi capite, costituisce una grande questione nazionale perché, se se ne vanno centinaia di migliaia di giovani laureati, questo rappresenta un costo molto alto per il paese che ha investito le sue risorse nella loro formazione ed educazione.

Secondo l’OCSE, il costo sostenuto dall’Italia per la formazione di un giovane fino alla laurea, si aggira intorno ai 170-180 mila Euro. Il costo di un ricercatore è invece di circa 220 mila Euro. Se aggiungiamo i costi sostenuti dalle famiglie, arriviamo a circa 250 mila euro per un laureato e a 300 mila per un dottore di ricerca.

Proviamo ora a fare una moltiplicazione, ipotizzando che il flusso migratorio di uno soltanto degli anni presi in considerazione, si insedi stabilmente all’estero: se dei 300mila italiani emigrati soltanto nel 2016, un terzo, cioè circa 100mila erano laureati, il valore trasferito dall’Italia ai paesi che hanno accolto questi giovani è pari a circa 17 miliardi di Euro. Se vi aggiungiamo i diplomati arriviamo a circa 25 miliardi. Se vi aggiungiamo i non diplomati, arriviamo a circa 30 miliardi di investimento pubblico. Se vi aggiungiamo anche i costi sostenuti dalle rispettive famiglie dei nuovi migranti, il valore del “capitale umano” trasferito senza alcuna compensazione si avvicina ai 50 miliardi.

50 miliardi è una cifra che corrisponde al 3% del Pil italiano. Naturalmente, questo calcolo, ponderato rispetto ai costi di formazione in ogni paese, ha una valenza per tutti i paesi di emigrazione, siano essi europei o extraeuropei e serve solo a dare un’idea dell’immenso trasferimento di risorse che avviene con i processi migratori.

Da questo calcolo si può procedere a quello delle mancate entrate fiscali e della riduzione di domanda che si registra nei paesi di emigrazione e al parallelo amento degli stessi valori che invece avviene nei paesi di immigrazione. Cioè all’evoluzione o involuzione del PIL e ai tassi di sviluppo, quindi ai tassi di produttività delle economie donatrici o fruitrici dei flussi migratori. Si tratta di valori la cui somma complessiva può dare dei risultati impressionanti.

E’ indubbio che essi allargano le forbici e i differenziali già esistenti tra queste categorie di paesi e che innescano una spirale che continua nella stessa direzione: a minore sviluppo segue generalmente maggiore emigrazione. Con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità della vita nei territori e nei paesi che erogano ad altre aree le proprie risorse umane.

Far conoscere l’entità e le caratteristiche della nuova emigrazione inter-europea può quindi costituire oggi un elemento importante per consentire una discussione pubblica sui fenomeni migratori più equilibrata e più fondata di quella a cui stiamo assistendo nei diversi paesi europei e a ridurre quindi le tendenze razziste e xenofobe. E consente di riposizionare il dibattito sulle classiche direttrici del rapporto tra centro e periferie, tra sviluppo e ritardo di sviluppo, indagandone le cause e i possibili rimedi.

 

Recentemente, a metà di giugno scorso, è stato pubblicato sul periodico Le Monde Diplomatique nelle varie edizioni nazionali, un dossier sull’evoluzione demografica e sui movimenti migratori in Europa. Si tratta di uno studio realizzato da ricercatori francesi estremamente significativo e per molti aspetti inquietante. (“Dossier: Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde Diplomatique, 15 Giugno 2018)

Da questo studio emerge che negli ultimi trenta anni, cioè dopo la caduta del muro che ha diviso questa città, a causa del combinato disposto di decremento demografico e di nuova emigrazione, la popolazione di quasi tutti i paesi dell’est europeo e dell’Europa mediterranea si è ridotta drasticamente: l’Ucraina, ad esempio, ha perso circa il 20% della sua popolazione (9 milioni di abitanti), la Romania, il 14% (3,2 milioni), la Moldavia circa il 17%, la Bosnia il 20%, la Bulgaria e la Lituania circa il 21%, la Lettonia oltre il 25%. I paesi dei Balcani, pur avendo un incremento demografico positivo, hanno registrato tassi di emigrazione enormi, fino al 37% dell’Albania. I tassi di emigrazione censiti in questi paesi sono superiori a quelli africani e si situano tra il 10 e il 18% delle rispettive popolazioni.

Nello stesso periodo, i paesi centro europei (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Gran Bretagna) hanno visto crescere o stabilizzarsi la propria popolazione grazie essenzialmente a questi movimenti inter-europei, i quali costituiscono i due terzi del complesso dei movimenti migratori (solo un terzo proviene infatti da paesi extraeuropei): negli stessi ultimi 30 anni, la Francia è cresciuta di 9 milioni di abitanti (cioè la stessa quantità persa dall’Ucraina: trenta anni fa Francia e Ucraina avevano più o meno la stessa popolazione), mentre la Germania ha avuto un saldo immigratorio positivo colossale: 10 milioni di persone, in gran parte di lavoratori immigrati provenienti, per i due terzi, da altri paesi europei. Per mantenere stabile la sua popolazione sugli attuali livelli, in Germania, si prevede di far entrare nei prossimi 30-40 anni, altri 20 milioni di lavoratori, in modo da ottenere un saldo positivo di ulteriori 10 milioni di persone.

I paesi mediterranei, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno contenuto parzialmente la perdita di popolazione solo grazie all’arrivo di immigrazione prevalentemente dall’Africa, dall’America Latina e dal Medio Oriente, mentre hanno ceduto consistenti flussi di emigrazione agli stessi paesi del centro nord Europa. L’Italia, come ha sostenuto Enrico Pugliese nel suo ultimo libro “Quelli che se ne vanno” è diventata una sorta di crocevia migratorio, con arrivi dalla costa sud del Mediterraneo e partenze verso il nord Europa che, dal 2013 in poi, risultano, come detto, nettamente superiori agli arrivi.

Sono evidenti in queste cifre, la profondità degli squilibri economici, sociali e territoriali a livello continentale che, in mancanza di interventi, sono destinati ad aumentare. Squilibri improvvidamente sottaciuti e la cui tendenza sta disegnando un nuova geografia. La sostenibilità e la coesione del quadro comunitario risulta molto improbabile se si pensa che negli scenari che vengono presentati, paesi e territori già aggrediti da forte decremento demografico ed emigrazione, sono destinati a perdere, già nel prossimo decennio ulteriori quote di popolazione attiva: nel 2030, secondo il rapporto che ho citato, “un quarto della popolazione della Croazia potrebbe scomparire”. Paradossalmente, anche i Länder della ex Germania Orientale potrebbero vedersi ulteriormente svuotati di popolazione a vantaggio delle regioni dell’ovest del paese che hanno già aspirato molta della sua popolazione dopo la riunificazione.

Per l’Italia gli scenari sono altrettanto drammatici: lo Svimez (un centro di ricerca delle imprese del meridione italiano), fin dal 2015 ha previsto la perdita di 5,5 milioni di persone nel sud del nostro paese al 2050-2060. Recentemente l’Istat (Istituto nazionale di statistica italiano) ha addirittura aggravato questa previsione portandola a circa 7 milioni di persone per l’intero paese, alla stessa data.

Le prospettive italiane risentono anch’esse di movimenti di emigrazione interna da sud verso nord che si aggiungono a quelli verso l’estero; il meridione ne paga e ne pagherà quindi le maggiori conseguenze.

Già oggi ci troviamo di fronte a situazioni impressionanti che riguardano diverse  aree interne dell’appennino italiano: da uno studio realizzato lo scorso anno da Carmine Nardone e Grazia Moffa (Cedom Università di Salerno), nella fascia di paesi della provincia di Benevento fino ai 10.000 residenti, si è registrata una perdita di popolazione che varia tra il 30% e il 35%, solo nel breve spazio di tempo del quinquennio 2011-2016.

Siamo di fronte a dimensioni davvero ragguardevoli, rispetto alle quali la politica appare del tutto assente. Sia a livello nazionale che europeo. Gli effetti che possono discendere da questa evoluzione sono tragici per i territori e le società coinvolte dai nuovi esodi, ma altrettanto significative e problematiche saranno le dinamiche che coinvolgeranno i paesi accettori dei nuovi flussi.

Anche la crescita di xenofobia e razzismo in Europa è in buona parte un esito di questi fenomeni. E’ significativo notare come la intensità di xenofobia e razzismo si manifesti maggiormente nei paesi e nelle aree coinvolte da flussi emigratori piuttosto che da flussi immigratori. Un esempio è costituito dai paesi del cosiddetto Patto di Visegrad e un altro da ciò che accade nei Länder della Germania dell’est rispetto a quelli dell’ovest.

Sono cioè gli enormi squilibri economici e sociali ad alimentare e a sostenere la nuova (ma antica) narrazione politica delle destre alla conquista dell’egemonia in tutta Europa.

Su questo e su tutto il resto che ne consegue, la riflessione dovrebbe essere profonda, come altrettanto profonda dovrebbe essere l’inversione di tendenza richiesta alle istituzioni e alla politica. E’ il declino economico e il degrado sociale in interi paesi o territori e soprattutto la mancanza di speranza in un diverso futuro a creare rancore e risentimenti, chiusure identitarie e nuovi muri.

Eludere una discussione sulle reali cause di questi esodi e dei decrementi demografici che li accompagnano dentro la nostra civile Europa non contribuisce a emancipare la discussione pubblica, anzi ne aggrava i termini con conseguenze sempre più gravi.

E dunque, se le sinistre in Europa non saranno in grado di riformulare strategie di riequilibrio economico e di coesione sociale adeguate a queste enormi contraddizioni create dalla ampia libertà concessa “ai mercati” e “ai capitali”, il destino che si delinea per le sinistre in Europa (e per l’Europa nel suo complesso) sarà quello di un grande futuro, ma purtroppo “alle spalle”, come nella geniale battuta di un grande attore italiano, ma di origine tedesca, Vittorio Gasmann.

 

Rodolfo Ricci

Berlino 23/9/2018

mercoledì 8 agosto 2018

Marcinelle 1956: cosa dovrebbe insegnarci la storia


 

 

 di Rodolfo Ricci

62 anni fa la tragedia di Marcinelle. 262 i morti, quasi tutti immigrati, in gran parte italiani. Quest’anno la ricorrenza cade in un particolare momento storico e politico caratterizzato da una discussione confusa e contraddittoria intorno ai nuovi fenomeni migratori che si muove intorno ai due poli della chiusura contro l’ apertura, diritto individuale alla mobilità e all’accoglienza di chi arriva contro il diritto al mantenimento di una primazia della cittadinanza autoctona.

Una discussione imposta dall’agenda mediatica e politica egemone che è molto astratta e che non da conto della complessità della vicenda in un momento di grave crisi economica e sistemica del capitalismo nella sua attuale fase. In Europa, inoltre, la discussione si coniuga con un’altra: quella del rapporto tra globale (o continentale) e nazionale che rischia di tradursi nello scontro di opposti fondamentalismi.

Accettare acriticamente questo dualismo significa accettarne gli inevitabili esiti che sono quelli di una ulteriore divisione – dogmatica – che si sovrappone alle divisioni reali dentro le società, tra paesi, tra aree continentali.

La ricorrenza di Marcinelle, della morte lontana dalle proprie famiglie di quei giovani italiani costretti all’emigrazione per la situazione sociale ed economica delle loro regioni di origine deve farci riflettere su possibili diversi paradigmi interpretativi: pur nella diversità dai fenomeni attuali, pur producendosi all’interno di un accordo bilaterale tra Belgio e Italia (braccia contro carbone), quei giovani non scelsero liberamente di emigrare; sarebbero volentieri restati a Manoppello o nei paesi campani e molisani se quelle zone avessero dato loro opportunità di lavoro dignitoso.

Un primo fondamentale insegnamento e memo per l’attuale riflessione intorno ai diritti individuali è dunque quello che accanto al diritto all’emigrazione è sempre da tener presente il diritto a non dover emigrare per forza.

Nell’ultima settimana in due successivi incidenti stradali sono morti in Puglia 16 giovani africani raccoglitori di pomodori nelle grandi pianure pugliesi. Come a Rosarno, in Calabria, come altrove, l’immigrazione è sfruttata in situazioni di nuova schiavitù nelle filiere controllate dalle grandi multinazionali della distribuzione della produzione agricola con l’obiettivo di mantenere il più basso possibile i prezzi dei prodotti di consumo. Ciò avviene nel paradiso dei diritti, l’Europa. La legge contro il caporalato avrà ben pochi effetti se non si affronterà il corno del problema.

Alla depredazione delle terre africane ad uso e consumo delle stesse entità economiche (europee, americane ed asiatiche) segue in parallelo lo sfruttamento assoluto (in Europa e altrove) del lavoro umano che quelle terre è stato costretto a lasciare.

Un destino analogo ai giovani morti di Marcinelle e di tante altre catastrofi, sacrificati al sacro margine di profitto.

Parlare solo di libertà di movimento e di accoglienza non risolve e non fa chiarezza sulla questione che abbiamo di fronte: le nostre responsabilità in quanto occidente e in quanto mondo che nell’occidente si intende come progressista, sono molto maggiori.

Gli attuali esiti migratori sono frutto di squilibri insostenibili durati secoli e addirittura peggiorati negli ultimi decenni del neoliberismo. Ciò che accade è dunque il frutto dei nostri errori, quando non dei nostri crimini. E su questo, non vi è dubbio che ci si debba battere per l’apertura, per l’accoglienza, per l’integrazione. Ma, ammesso che ciò sia possibile in modo ottimale in un momento di grave crisi (e non di boom economico che caratterizzò altre fasi migratorie), questa pratica non risolve la spirale migratoria che anzi procede per successivi stadi e si amplia nella misura in cui l’esodo priva i paesi di origini del fattore fondamentale dello sviluppo: l’uomo con le sua capacità e competenze.

Il mondo progressista non può essere soddisfatto e compiaciuto del dovere universale all’accoglienza; è suo compito ineludibile quello di adoperarsi per la fine di un modello economico che distrugge gli ecosistemi, interi territori e paesi ed anche l’ecosistema culturale, la razionalità dell’indagine e dell’analisi.

Quale vantaggio avremmo, noi occidentali, a veder deperire e desertificate altre aree del mondo ?

Noi italiani abbiamo da questo punto di vista, elementi di conoscenza storica empirica incontestabili: innanzitutto lo stato del nostro meridione che in mancanza di scelte politiche precise andrà incontro ad ulteriori peggioramenti nei prossimi anni.

Noi europei abbiamo altri elementi di conoscenza empirica incontestabili: lo squilibrio indecente tra nord e sud Europa, tra nord ed est Europa.

Si tratta di squilibri imposti dal libero mercato, dalla libera circolazione dei capitali, da una finanziarizzazione dell’economia che non ha altri obiettivi che l’autovalorizzazione del capitale in un contesto di incessante caduta dei margini di profitto – interni alla logica stessa dell’accumulazione-, oggi aggravati dall’innovazione tecnologica, dall’apertura indiscriminata dei mercati in cui vince sempre il più forte e il più debole soccombe.

C’è bisogno di coerenza e di visione. Restare fermi in un fortino paternalistico potrà gratificare la nostra (falsa) coscienza, ma può anche aggravare ulteriormente i problemi.

Sul cosa fare e sul come fare ad allargare le crepe del sistema, sui modi e i tempi, sulle tattiche e sulle strategie, auspico una discussione scevra da dogmatismi e fondamentalismi contrapposti; qui, sì, c’è bisogno di apertura e disponibilità all’ascolto anche per ciò che sembra caratterizzarsi come “eretico” e soprattutto a recuperare memoria storica ed esperienze di lotta che potrebbero di primo acchito scandalizzarci. Come le recenti dichiarazioni e proposte di Oskar Lafontaine e di Sahra Wagenknecht.

All’inizio degli anni 2000 conoscemmo da vicino il Movimento brasiliano dei Senza Terra. Le loro classi dirigenti erano partecipate in gran parte dai nipoti dei nostri primi emigrati che avevano colonizzato il sud del Brasile. Avevano vissuto per decenni nelle loro terre fino a quando i prezzi dei loro prodotti furono messi fuori mercato dal grande business dell’agroindustria controllata dalle multinazionali in combutta con le oligarchie locali. Così dalle immense campagne brasiliane emigrarono in massa verso le metropoli a decuplicare le bidonvilles o le favelas insieme ad altri milioni provenienti dal nord est del paese.

L’occupazione e la conquista delle terre incolte o malcoltivate era la loro risposta attiva a questi processi: per loro non era preferibile l’emigrazione verso la modernità fatta di lamiere e improbabili catapecchie, ma restare o tornare nelle zone produttive dell’interno che garantivano pane e vita frugale ma dignitosa.

Chiedemmo loro se avrebbero apprezzato il nostro aiuto ad inserire i loro prodotti nel circuito del commercio equo e solidale che all’epoca aveva un certo slancio e appeal per noi progressisti europei. Ci risposero che non erano interessati ad un inserimento nel circuito degli scambi globali, ma piuttosto erano interessati a ricevere competenze, tecnologie, insegnanti per le loro scuole rurali. I loro obiettivi prioritari erano l’autosufficienza alimentare, energetica, idrica e l’autonomia culturale dei loro villaggi.

Il Movimento dei Sem Terra, forte di 5 milioni di aderenti, fu decisivo nell’ascesa di Lula e fu una delle fondamentali organizzazioni che diede vita ai forum sociali mondiali.

Dove è finita quella lista di obiettivi che definirono l’agenda di quegli anni ?

Già nel 1999 a Seattle, nel cuore dell’occidente, sindacati e associazioni erano scesi in piazza contro la globalizzazione neoliberista. Qualcuno a sinistra disse che si trattava del nuovo luddismo. Che quei manifestanti non si erano resi conto che la storia aveva imboccato un’altra via, definitiva. Che la storia era finita, come suggeriva Fukuyama. A distanza di venti anni possiamo porci la domanda: a chi abbiamo lasciato la rappresentanza di quelle sollecitazioni ?

Lascio aperte le conclusioni o la continuazione della riflessione, ricordando anche che mentre discutiamo accanitamente dell’immigrazione dal sud del mondo, l’Italia è l’ottavo paese al mondo per flussi di emigrazione (circa 300 mila all’anno negli ultimi 5 anni), mentre gli immigrati sono ormai poche decine di migliaia e che il tasso di emigrazione all’interno dell’Europa (che si muovono sempre dal sud e dall’est verso il centro-nord mercantilistico del continente) negli ultimi trenta anni è stato superiore a quello registrato in Africa.

Che la xenofobia e il nazionalismo crescono di più nei paesi e nelle regioni afflitte da emigrazione strutturale piuttosto che da immigrazione. Che il cuore economico del nostro continente, la Germania, lascia entrare mediamente 1,5 milioni di giovani lavoratori fin dal 2013 e li disloca per circa due terzi nella sua parte occidentale (prevalentemente immigrazione intra-europea) e per un terzo nella sua parte orientale (prevalentemente immigrazione extra-europea). Questo accaparramento di risorse umane non è libera circolazione.

Oskar Lafontaine e Sahra Wagenknecht, conoscono meglio di altri le caratteristiche strutturali del capitalismo tedesco, la storica compenetrazione banche-impresa e la naturale predisposizione delle sue classi dirigenti a disporre di lavoro extranazionale per la sua crescita orientata ad un export aggressivo, riconfermata dalla legge sull’immigrazione del 2000 varata dal governo socialdemocratico Schroeder.

lunedì 16 luglio 2018

Tito Boeri, le migrazioni e l’INPS


  

 

di Rodolfo Ricci

Le intrusioni del Presidente dell’INPS Tito Boeri nella discussione politica nazionale non sono una novità; già nella precedente legislatura egli si era esercitato su diverse questioni ogni qual volta alcune decisioni politiche potevano avere ricadute sulle prospettive di tenuta dei bilanci dell’Inps sia a breve che a medio temine.

La tenuta dei conti della più importante fonte di ingressi e di spesa del bilancio pubblico non è evidentemente cosa secondaria e da questo punto di vista, fare da guardiani affinché non si creino situazioni di insostenibilità non è in sé cosa biasimevole. La questione, da un punto di vista politico, è a quale prezzo i conti vengano fatti quadrare e se, da un punto di vista etico o semplicemente di giustizia sociale, la quadratura è ammissibile, condivisibile e fondata. Per altro verso è interessante verificare quali dati e quali parametri vengano utilizzati per sostenere le diverse tesi che si confrontano.

Senza scendere nella cronaca degli ultimi giorni sul c.d. “Decreto Dignità” e tralasciando gli ammonimenti a non toccare la riforma Fornero (i cui esiti milioni di persone conoscono più che bene e tutti gli altri conosceranno a breve) che costituì la pietra miliare del governo dei mercati di Mario Monti, è interessante in questo caso soffermarci sulla discussione tra tenuta dei conti INPS e la dominante questione immigrazione su cui si sta giocando buona parte della battaglia politica di questi mesi.

La tesi che ci permettiamo di sostenere è che in questa discussione non vi è nulla di oggettivo, nulla di eticamente condivisibile, ma molto di ideologico o, per stare alla definizione odierna di Boeri, tutta la discussione è caratterizzata da un ecumenico negazionismo (per di più a ampia insaputa) e a… 360 gradi.

 

 

Cos’è che si afferma e cos’è che si nega, cos’è che si ignora per ignoranza o malafede.

 

Si dice, ad esempio, che gli immigrati debbono entrare poiché già oggi sono loro – e lo saranno ancora di più in futuro – a sostenere il nostro sistema pensionistico, in un contesto di declino demografico e invecchiamento della popolazione nazionale.

Allo stesso tempo non si dice che, dal momento che la Legge Fornero ha innalzato a 20 anni il limite minimo contributivo per poter accedere alla pensione di vecchiaia, chi si situa sotto questa quota non avrà, di norma, diritto alla pensione. In questa categoria rientrano milioni di lavoratori immigrati (e nostrani), i cui contributi silenti (ma che gridano vendetta), vengono semplicemente incamerati dall’Inps senza alcuna contropartita. Altro che sistema contributivo !!

Si tratta di 7-10 miliardi di contributi che non saranno mai restituiti, o solo in minima parte. Utilizzarli è estremamente complesso per i cittadini italiani, praticamente impossibile per un lavoratore o lavoratrice immigrata che rientri al suo paese, soprattutto se non vi sono accordi bilaterali tra l’Italia e il paese di provenienza. Certo, a queste condizioni, la presenza di immigrati, in particolare a tempo limitato, è una vera manna per il bilancio dell’Inps. (Ma anche senza di loro e sarebbe bene che gli italiani lo sapessero).

Un altro esempio: lo scorso anno Tito Boeri ha tentato una sortita sul versante italiani all’estero; secondo Boeri, l’Inps pagherebbe troppe pensioni all’estero. Si tratta di circa 400mila pensionati nati in Italia e trasferitisi all’estero prevalentemente negli anni ’50-’70. La situazione, secondo l’Inps è aggravata dal fatto che negli ultimi anni sta crescendo l’emigrazione di pensionati italiani che si trasferiscono in alcuni paesi europei ed extraeuropei perché il potere d’acquisto delle nostre basse pensioni consente loro di vivere meglio altrove, piuttosto che in Italia. Boeri è arrivato ad ipotizzare che le pensioni possano essere erogate solo se si è residenti sul territorio nazionale, in modo, si è detto, che il Pil italiano non ne venga compromesso. Queste considerazioni hanno scatenato i rappresentanti delle comunità italiane all’estero: Tito Boeri ignorava, a loro parere, la storia e le ragioni dell’emigrazione italiana e allo stesso tempo ignorava il fatto che il pareggio del bilancio pubblico del nostro paese è stato per un secolo intero consentito o quantomeno fortemente supportato da miliardi di dollari di rimesse dei nostri connazionali che hanno contribuito al Pil nazionale con investimenti diretti, oltre che contribuendo alla penetrazione del made in Italy (cioè del nostro export) nei rispettivi paesi di arrivo. Ma allo stesso tempo, la minaccia di Boeri individuava uno scenario finora inimmaginabile: la pensione legata alla residenza obbligatoria … e alla negazione della libertà di movimento. Un bel progresso in termini di liberalismo !!

Un ultimo esempio, ancora più attuale: Il Presidente dell’Inps, mentre si rammarica della diminuzione di flussi di immigrazione verso l’Italia, non si scandalizza affatto che centinaia di migliaia (anzi milioni) di giovani italiani abbiano ripreso negli ultimi dieci anni, la via dell’emigrazione verso il nord Europa e altri paesi extra-europei. Utilizzando le sue argomentazioni di cui sopra, gli sembra evidentemente normale che i nostri giovani vadano a rinsaldare i bilanci degli istituti previdenziali di altri paesi affetti, come il nostro, da decremento demografico: cioè che vadano a pagare le pensioni a tedeschi, inglesi, svizzeri, francesi, olandesi, ecc.. Neanche si preoccupa che il trasferimento (enorme in termini di patrimonio) di questo capitale umano formato a spese dello Stato e delle famiglie italiane vada a implementare il Pil di altri paesi, quindi a ridurre il nostro e, conseguentemente, a rendere ancora più difficile il recupero del rapporto Debito-Pil che grava sull’Italia, cosa che dovrebbe costituire, per bocca degli economisti come Boeri, l’obiettivo principe su cui convergere.

Sono alcuni esempi che danno l’idea della schizofrenia logica e della patologia specialistica “da bilancio” che attanaglia non solo Boeri, ma gran parte della classe dirigente del Paese, che sia al governo o che sia all’opposizione o che sia classe dirigente istituzionale. Soprattutto colpisce l’incapacità di comprendere (e la sapienza nel confondere) cause ed effetti, pagliuzze con travi.

Il Jobs Act fu introdotto dal governo Renzi (come il Pareggio di Bilancio in Costituzione) sotto suggerimento della UE a direzione mercantilista, del  mainstream economico globale (e dei suoi adepti nazionali), con la convinzione che per attrarre maggiori investimenti dall’estero bisognava offrire migliori condizioni al mondo delle imprese; cioè riducendo i diritti dei lavoratori e mettendo sotto ulteriore pressione i salari attraverso la precarizzazione del mondo del lavoro. Questi geni della politica non si erano resi conto che nel frattempo, fin dal 2008 era ripreso lo storico esodo italiano alla ricerca di migliori salari, di maggiori diritti e di minore, almeno relativa, precarietà, verso l’estero (che è arrivato, dal 2013 ad oggi a circa 300mila persone all’anno). Dunque che la medicina aggravava le condizioni del paziente. Come dimostra anche l’ulteriore crescita di debito pubblico. Si cercavano investimenti dall’estero e il risultato è stato quello di incentivare l’emigrazione di capitale umano nostrano.

Oggi Boeri dice che il “Decreto Dignità” (peraltro limitato e che subirà rimaneggiamenti vari a partire dalla reintroduzione dei Voucher per accontentare l’imprenditoria di 2° classe) implica la perdita di 8mila posti di lavoro all’anno. E le pagine dei quotidiani nazionali sono zeppi di polemiche sulla vicenda. Quanta carta sprecata !

C’è anche qualcuno che è pronto a farne il perno della nuova opposizione e qualcun altro che rilancia la discussione (a causa del coinvolgimento tematico dell’immigrazione) in termini di progressismo umanitario sui social. Che la situazione fosse tragica nessuno lo ignorava, che sia penosa è certo.


giovedì 12 luglio 2018

Emigrazione in Europa: declino demografico, desertificazione e polarizzazione tra centro e periferie. La grande falsificazione della discussione in corso.


 

Relazione introduttiva del vice segretario del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, R. Ricci alla discussione sulla Nuova Emigrazione Italiana, tenutasi alla Farnesina nell’ambito dell’Assemblea Plenaria del CGIE del 2018.  Nella relazione sono contenuti dati significativi sugli enormi flussi di emigrazione interna all’Unione Europea succedutesi nell’ultimo trentennio e sulle tendenze dei prossimi decenni, che implicherebbero una radicale revisione della discussione sui movimenti migratori: l’equivoco della cosiddetta “libera circolazione” nasconde la nascita di una nuova geografia caratterizzata da emigrazione forzata e squilibri insostenibili che costituiscono la ragione principale del declino dell’Unione Europea e dell’emergere di xenofobia e razzismo: i flussi immigratori all’interno della UE sono costituiti solo per un terzo da immigrazione extracomunitaria e per ben due terzi da immigrazione intra-comunitaria.

“Mondo del lavoro e italiani all’estero. Nuova mobilità, incremento delle partenze, legge del controesodo”

Introduzione di Rodolfo Ricci, V.s.g. del Cgie

Ministero degli Esteri – Sala delle conferenze internazionali

5 luglio 2018

 

 

Caro Segretario, care e cari consiglieri,

la questione della nuova emigrazione italiana è una delle questioni centrali per il nostro lavoro. Credo che il CGIE debba insistere nel puntuale monitoraggio della sua evoluzione e dei problemi che essa comporta, come peraltro sta facendo fin dal 2013, quando approvò all’unanimità un ordine del giorno che è ancora oggi pienamente attuale.

Da allora, purtroppo, il nostro allarme reiterato sulla crescita dei flussi in uscita, prevalentemente giovanili e con livelli di formazione mediamente elevati, non è ancora stato preso in seria considerazione dalla politica e dalle istituzioni del nostro paese; salvo la breve parentesi dello scorso anno con il rapporto instauratosi con il precedente Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, i cui impegni sul versante da noi richiesto – (misure di orientamento alla partenza e di accompagnamento nei paesi di arrivo che consentissero di evitare o quantomeno di ridurre le situazioni di marginalità e di precarietà che si registrano dovunque e che coinvolgono migliaia di giovani e meno giovani, ivi incluse intere famiglie) – sono ancora tutti da assolvere.

Nel frattempo la nuova emigrazione è continuata a crescere stabilizzandosi sulla cifra, oramai ampiamente condivisa da centri di studio e ricercatori, di circa 300mila persone all’anno che lasciano il nostro paese, prevalentemente verso le mete nord europee, ma anche verso nuove destinazioni asiatiche, del nord e sud America e dell’Australia. Sono numeri analoghi a quelli dell’emigrazione di massa degli anni 60 del ‘900.

Si tratta, come si vede, di un’entità che è il doppio degli attuali arrivi di profughi e migranti economici, cioè dell’immigrazione nel suo complesso, su cui si concentra la discussione politica e istituzionale nei modi che sappiamo.

La presenza italiana all’estero, riferendoci ai dati delle anagrafi consolari, ha ormai superato nettamente lo stock di immigrazione (che è di circa 5,2 milioni di immigrati), raggiungendo i 5,7 milioni di emigrati, con un aumento del 100% negli ultimi 15 anni e di oltre un milione e centomila solo negli ultimi 5 anni. A questi è verosimile che bisognerebbe aggiungere un altro milione ed oltre di giovani e meno giovani che, per ragioni a noi note, non si iscrivono all’Aire, né vengono censiti dai consolati. Stiamo dunque parlando di circa 7 milioni di italiani tra vecchia e nuova emigrazione, cioè di oltre il 10% della popolazione italiana. La somma di immigrati ed emigrati raggiunge invece circa il 20% dell’intera popolazione del paese, a conferma che l’Italia è un crocevia migratorio con caratteristiche uniche nel panorama europeo, mentre si situa all’8° posto nel mondo per entità di flussi di emigrazione in uscita.

Di fronte a questi dati è davvero sorprendente e per certi versi incomprensibile che la discussione pubblica sui movimenti migratori si sviluppi nei modi che conosciamo e che, allo stesso tempo, si ignori completamente la dimensione della nuova emigrazione italiana che, al di là del nostro ambito di rappresentanza, costituisce una grande questione nazionale, di cui però il paese non si occupa: “quelli che se ne vanno”, una volta fuori dai confini nazionali, sono ampiamente dimenticati.

Credo che il Cgie debba adoperarsi per contribuire a cambiare questa situazione. A questo proposito vi propongo che, anche sulla base dei contributi che ascolteremo dal Prof. Matteo Sanfilippo, dalla Prof.ssa Maria Immacolata Macioti e dal Prof. Enrico Pugliese che abbiamo invitato e che ringraziamo per la loro presenza, il Cgie, predisponga un dossier sulla nuova emigrazione italiana, con un compendio delle nostre richieste e proposte, da far pervenire alle istituzioni del paese, al Governo, al Parlamento, ai Ministeri competenti, alle Commissioni Parlamentari, ai gruppi e singoli parlamentari, alle forze politiche e sociali del paese, come prevede peraltro la Legge istitutiva del Cgie.

Far conoscere l’entità e le caratteristiche della nuova emigrazione può anche costituire un elemento importante per consentire una discussione pubblica sui fenomeni migratori più equilibrata e più fondata di quella a cui stiamo assistendo, sia nel nostro paese, sia a livello europeo.

Recentemente, circa due settimane fa, è stato pubblicato sul periodico Le Monde Diplomatique nelle varie edizioni nazionali, un dossier sull’evoluzione demografica e sui movimenti migratori in Europa. Si tratta di uno studio realizzato da ricercatori francesi estremamente significativo e per molti aspetti inquietante. (“Dossier: Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde Diplomatique, Giugno 2018)

Dallo questo studio emerge che negli ultimi trenta anni, a causa del combinato disposto di decremento demografico e di nuova emigrazione, la popolazione di quasi tutti i paesi dell’est europeo e dell’Europa mediterranea si è ridotta drasticamente: l’Ucraina, ad esempio, ha perso circa il 20% della sua popolazione (9 milioni di abitanti), la Romania, il 14% (3,2 milioni), la Moldavia circa il 17%, la Bosnia il 20%, la Bulgaria e la Lituania circa il 21%, la Lettonia oltre il 25%. I paesi dei Balcani, pur avendo un incremento demografico positivo, hanno registrato tassi di emigrazione enormi, fino al 37% dell’Albania. I tassi di emigrazione censiti in questi paesi sono superiori a quelli africani e si situano mediamente tra il 10 e il 18% delle rispettive popolazioni.

Nello stesso periodo, i paesi centro europei (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Gran Bretagna) hanno visto crescere o stabilizzarsi la loro popolazione grazie essenzialmente a questi movimenti inter-europei, i quali costituiscono i due terzi del complesso dei movimenti migratori (solo un terzo proviene infatti da paesi extraeuropei): negli stessi ultimi 30 anni, la Francia è cresciuta di 9 milioni di abitanti (la stessa quantità persa dall’Ucraina, che trenta anni or sono aveva più o meno la stessa popolazione), mentre la Germania ha avuto un saldo immigratorio positivo colossale: 10 milioni di persone, in gran parte di lavoratori immigrati provenienti, per due terzi, da altri paesi europei. Per mantenere stabile la sua popolazione sugli attuali livelli, la Germania prevede di far entrare nei prossimi 30 anni, altri 20 milioni di lavoratori, in modo da ottenere un saldo positivo di ulteriori 10 milioni di persone.

I paesi mediterranei, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno contenuto parzialmente la perdita di popolazione solo grazie all’arrivo di immigrazione prevalentemente dall’Africa, dall’America Latina e dal Medio Oriente, mentre hanno ceduto consistenti flussi di emigrazione agli stessi paesi del centro nord Europa. L’Italia, come ha sostenuto Enrico Pugliese nel suo ultimo libro “Quelli che se ne vanno” è diventata una sorta di crocevia migratorio, con arrivi dalla costa sud del Mediterraneo e partenze verso il nord Europa che, dal 2013 in poi, risultano, come detto, nettamente superiori agli arrivi.

Sono evidenti in queste cifre, la profondità degli squilibri economici, sociali e territoriali a livello continentale che, in mancanza di interventi, sono destinati ad aumentare. Squilibri improvvidamente sottaciuti e la cui tendenza sta disegnando un nuova geografia. La sostenibilità del quadro comunitario risulta molto improbabile se si pensa che negli scenari che vengono presentati, paesi e territori già aggrediti da forte decremento demografico ed emigrazione, sono destinati a perdere, già nel prossimo decennio ulteriori quote di popolazione attiva: nel 2030, “un quarto della popolazione della Croazia potrebbe scomparire”. Paradossalmente, anche i Länder della ex Germania Orientale si vedrebbero ulteriormente svuotati di popolazione a vantaggio delle regioni dell’ovest del paese che hanno già aspirato circa il 20% della sua popolazione dopo la riunificazione.

Per l’Italia gli scenari sono altrettanto drammatici: lo Svimez, fin dal 2015 ha previsto la perdita di 5,5 milioni di persone nel sud del nostro paese al 2050-2060. Recentemente l’Istat ha addirittura aggravato questa previsione portandola a circa 7 milioni di persone per l’intero paese, alla stessa data.

Le prospettive italiane risentono anch’esse di movimenti di emigrazione interna da sud verso nord che si aggiungono a quelli verso l’estero; il meridione ne paga e ne pagherà quindi le maggiori conseguenze.

Già oggi ci troviamo di fronte a situazioni impressionanti che riguardano diverse  aree interne dell’appennino: da uno studio realizzato lo scorso anno da Carmine Nardone e Grazia Moffa (Cedom Salerno), in diversi paesi nella fascia del Beneventano fino ai 10.000 residenti, si è registrata una perdita di popolazione che varia tra il 30% e il 35%, solo nel breve spazio di tempo del quinquennio 2011-2016.

Siamo di fronte a dimensioni davvero ragguardevoli, rispetto alle quali la politica appare del tutto assente. Sia a livello nazionale che europeo. Gli effetti che possono discendere da questa evoluzione  sono tragici per i territori e le società coinvolte dai nuovi  esodi, ma altrettanto significative saranno le dinamiche che coinvolgeranno i paesi accettori dei nuovi flussi.

Anche la crescita di xenofobia e razzismo in Europa è in buona parte un esito di questi fenomeni. E’ paradossale notare come la loro intensità si manifesti maggiormente nei paesi e nelle aree coinvolte da flussi emigratori piuttosto che da flussi immigratori. Un esempio è costituito dai paesi del cosiddetto Patto di Visegrad e un altro da ciò che accade nei Länder della Germania dell’est rispetto a quelli dell’ovest.

Sono cioè gli enormi squilibri economici e sociali ad alimentare e a sostenere la nuova (ma antica) narrazione politica alla conquista dell’egemonia in tutta Europa. Su questo e su tutto il resto che ne consegue, la riflessione dovrebbe essere profonda, come altrettanto profonda dovrebbe essere l’inversione di tendenza richiesta alle istituzioni e alla politica. Sono il declino economico e il degrado sociale in interi paesi e territori e soprattutto la mancanza di speranza in un diverso futuro a creare rancore e risentimenti, chiusure identitarie e nuovi muri.

Eludere una discussione sulle reali cause di questi esodi e dei decrementi demografici che li accompagnano dentro la civile Europa non contribuisce a emancipare la discussione pubblica, anzi ne aggrava i termini con conseguenze sempre più gravi.

 

 

Rodolfo Ricci

Roma 5/7/2018

martedì 12 giugno 2018

IMMIGRAZIONE, EMIGRAZIONE, COOPERAZIONE

di Rodolfo Ricci
Nell’analisi degli attuali fenomeni migratori e delle connesse questioni economico-sociali, giuridiche e politiche è opportuno richiamare alcuni aspetti di ordine storico e di approccio di indagine che consentano di ricostruire una unità di lettura dei fenomeni migratori in quanto effetti – e allo stesso tempo concause – dei mutamenti strutturali che li producono e che li alimentano.