martedì 30 giugno 2020

Riemersione della vita. Verso una nuova città del sole

 


 

 di Rodolfo Ricci

Riemersione della vita

Cosa riemerge, cosa torna a galla, con una evidenza indiscutibile, da questi mesi di pandemia e di morte ?

Cosa torna a galla sul piano sociale, politico, economico, e cosa torna a galla nell’ambito della coscienza delle persone, cosa cambia nella psicologia sociale?

Si tratta di questioni fondamentali che potrebbero riconfigurare completamente l’immaginario collettivo e resettare il software che ha diretto il movimento della macchina sistemica degli ultimi 40 anni, il software T.I.N.A., per intenderci, e forse ben oltre.

Le evidenze che tornano a galla sono potenzialmente in grado di costituire elementi basilari della riprogettazione delle società, in particolare negli spazi centrali del sistema, i cosiddetti paesi avanzati. E da questo punto di vista, costituiscono molecole di nuove organicità non soltanto possibili, ma necessarie, indispensabili. Non è solo un auspicio, ma è anche una evidenza, appunto.

Ciò che segue è un provvisorio elenco di ciò che è riemerso e che è ampiamente visibile; bisogna solo fare un piccolo sforzo per registrarne la visione; per memorizzarla stabilmente e organizzarla, per diffonderla, per farla germogliare. Ma soprattutto bisogna evitare di lasciarsi irretire nella narrazione mediatica del potere di propaganda che mira a relegarle (le percezioni tornate a galla) nel regno dell’onirico, a inquinarle in modo che esse vengano autocancellate, a spostare l’attenzione nel campo del complotto, o a mobilitare la gente nel recupero di un’età dell’oro che non è mai esistita e non esisteva prima della pandemia, ma anche, forse, nella riproduzione di conflitti inquadrati nel precedente scenario: tutta la propaganda è orientata ad un ritorno indietro, a quando si era liberi da mascherine e guanti, liberi di viaggiare inquinando, liberi di consumare inutilmente e di produrre istericamente: se riescono a convincerci che la guerra da combattere è questa, è la reazione a vincere.

Economia / Lavoro / Capitale

Il vistoso rallentamento economico e la drastica riduzione del PIL è stato causato dalle misure di contenimento sociale; il contenimento sociale non ha riguardato i capitali (che continuano a muoversi liberamente, pur in un ampio disorientamento), ma ha riguardato le persone nella loro duplice funzione di produttori e di consumatori. Con i lavoratori e i consumatori a riposo, non c’è mercato o ce n’è uno molto ridotto che si incarta su stesso e che tende a ridursi con ulteriore frequenza negativa. Dunque l’economia esiste soltanto grazie alle persone, la cosiddetta “crescita” ne è una conseguenza possibile. Dunque le persone e la loro interazione costituiscono l’economia; dunque il sistema è un prodotto delle persone. Non c’è T.I.N.A. che tenga, né altri fattori astratti esogeni. Diciamo che c’è un vincolo permanente e interno: il lavoro vivo dei soggetti è il sole che illumina la terra.

Contrariamente alla teoria standard che vede il lavoro come uno dei diversi fattori di produzione insieme al capitale, possiamo intravvedere che vi è una oggettiva gerarchia di valore tra questi fattori: Il lavoro sta prima, il capitale dopo; il secondo è uno dei possibili prodotti del primo; il capitale è un mero strumento, una delle modalità di valorizzazione della capacità creativa del lavoro. E funziona solo in un ambito relativo, dentro specifici e limitati contesti, non in assoluto. Se il capitale è uno strumento, può essere gestito in diversi modi e da diversi soggetti. Non è affatto autosufficiente, esso è un oggetto, non un soggetto. Quando pretende di essere un soggetto, è un’invenzione: è il capitalismo. (Nella sua versione peggiore è il capitalismo estrattivo, anientatore di risorse, totalmente finanziarizzato, quello della globalizzazione).

Diversamente da quanto si produce con le guerre, nella pandemia il capitale fisso non è stato distrutto. Sta lì, in attesa. La crisi dipende dalla sterilizzazione del capitale fisso in mancanza di capacità di valorizzazione offerta dal lavoro e dalla riproduzione del lavoro. Dunque il capitale è uno strumento tecnico del lavoro, che il lavoro può sempre modificare o ricreare in diverse modalità. Mentre il lavoro non può essere ricreato dal capitale in assenza di lavoro e della sua riproduzione. Il capitale è un dunque un oggetto.

Il capitale finanziario continua ad muoversi e agitarsi istericamente nelle borse in una guerra che permane pur dentro lo svolgersi della pandemia, la permanente guerra tra i suoi detentori per assicurarsi il miglior livello di profitto nominale. Questa agitazione non produce alcunché: è solo una partita di giro interna. Una guerra tra rendite la cui valorizzazione si dà al prezzo dell’annientamento dell’avversario. Ma non aggiunge, né toglie niente alla loro somma. L’unica variazione che si produce è la sua progressiva perdita di valore complessivo a causa della manifesta impossibilità di poter alimentare il precedente ritmo di valorizzazione, o meglio di estrazione di valore dal lavoro. Più si protrae la pandemia, più appare inconsistente il valore della rendita in sé. Un curva che si protende verso il nulla. A meno che il lavoro non si riattivi in funzione subalterna ad essa, ed essa non riprenda ad estrarre valore dal lavoro.

Il capitale finanziario è solo uno strumento di misura. Se non c’è nulla da misurare, il capitale finanziario assomiglia ad una mappa di una terra inesistente. Un pura creatura fantastica. La sua permanenza in quanto dato reale è fondato solo sulla credenza generale che esso costituisca un dato reale esterno alla fisicità della capacità di creazione, cioè del lavoro.

E va ancora peggio sul piano prospettico: se il capitale (in particolare la frazione non speculativa di esso) gira su sé stesso senza intravvedere occasioni e prospettive condivise di investimento, cessa anche la sua funzione ancestrale, cioè quella legata alla sua progettualità sistemica. Se ne può fare a meno.

O meglio può essere sostituito. Da cosa ? Da una responsabilità condivisa. Da una progettualità condivisa.

E’ solo questa progettualità condivisa, collettiva, responsabile, che può ricreare il suo capitale, il capitale necessario ad attuar-si, a manifestare sé stessa non in quanto capitale, ma in quanto progettualità, cioè come orizzonte, come sol dell’avvenire.

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Rispetto a questa evidenza (che viene volgarizzata nel codice binario di pubblico/privato) già si intravvedono due visioni, due percorsi di uscita dalla crisi; o meglio di uscita dall’evidenza medesima che, per le due fazioni che detengono la formula magica, deve essere annebbiata, nascosta, rimessa a forza nella lampada di Aladino:

1) – tornare a prima come se niente fosse successo.

2) – usare l’occasione per riprogrammare il sistema, quindi per cambiare il progetto di società.

Se la prima ipotesi è palesemente reazionaria, infondata tecnicamente e inaccettabile socialmente ed ecologicamente (ma non per questo impossibile, anzi…), nella seconda si confrontano prospettive riformistiche o palingenetiche.

Quelle riformistiche intravvedono l’opportunità di limitazione della logica mercantilistica, del rilancio della funzione statuale in funzione di un riequilibrio tra pubblico e privato e di modificazione generale degli obiettivi della produzione e dei processi produttivi (L’idea del New Green Deal è una delle direzioni proposte).

La prima opzione, quella del tornare al prima come se niente fosse successo, porta inevitabilmente e velocemente allo scontro imperialistico e alla guerra.

Guerra tra i grandi aggregati sistemici di potere economico e a cascata tra le sue concentrazioni territoriali, gli Stati.

La seconda opzione tenta una riconfigurazione del capitalismo tentando di espungerne o di limitare, necessariamente, la variabile neoliberista e ipotizzando una ricomposizione ed un equilibrio degli interessi interni al sistema, sperando che si produca una modificazione nella sua ideologia che si è stratificata nell’ultimo secolo con l’accentuazione irrefrenabile dell’ultimo cinquantennio.

La prima opzione appare al momento in svantaggio strategico e pare invece di crescente consenso la seconda. Ma non è detto che prevalga, poiché gli assetti proprietari sistemici e tecnologici (capitali, tecnologie, informazione e comunicazione) sono ancora in mano a chi deteneva il potere prima della pandemia e l’infrastruttura ideologica, tecnologica e di potere sono intimamente compenetrate ed equilibrate su quel modello.

Se c’è infatti un paradosso degli effetti della pandemia, il più evidente è che in una situazione in cui la vita stessa viene messa in questione, ciò che invece non viene toccato, o solo marginalmente, è l’istituto della proprietà privata (sia dei mezzi di produzione che dei capitali), anche se la sua fascinazione sociale decresce sensibilmente.

Almeno per il momento, perché tutto varia rapidamente (non solo sul piano sistemico quanto su quello dell’egemonia culturale, cioè dell’ideologia che lo sorregge) al variare dell’intensità della pandemia, della sua concentrazione in alcune aree piuttosto che in altre, della durezza dei suoi effetti su alcune fasce sociali o sulla maggioranza delle società. In generale, si può dire però, che la permanenza e la durata globale della pandemia influenzerà in modo decisivo la definizione dell’opzione su cui convergere poiché determinerà cambiamenti decisivi sul vissuto concreto e sul senso interiore dei soggetti individuali e quindi sulle successive ri-composizioni sociali.

Se la seconda prospettiva indicata appare a tutti gli effetti più accettabile e realistica, bisogna comprendere se, così come definita, sia in grado di “reggere” alle contraddizioni interne con cui sarà costretta a confrontarsi:

– la questione centrale è la ridiscesa in campo in forza dello Stato come attore anelato e chiamato a tappare le enormi buche create dalla libera mano del mercato e quindi gli effetti sistemici che ciò comporterà: la marginalizzazione di questo antico soggetto a mero regolatore e garante delle dinamiche del libero e superiore mercato (negli ultimi 4-5 decenni) aveva avuto la sua insita ragione nella semplice e irrefrenabile necessità del mercato di superare ogni confine e di acquisire progressivamente tutti gli ambiti dei beni pubblici e naturali (inclusi quelli umani) per rilanciare una nuova fase di accumulazione.

I due processi paralleli e unificanti della fase che ci stiamo lasciando alle spalle sono stati essenzialmente:

a) – l’inclusione della totalità dello spazio (fisico, culturale e di forze lavoro) del pianeta alla sua logica di valorizzazione cancellando ogni traccia potenziale alternativa e,

b) – la progressiva distruzione di una autonoma funzione statuale – con una relativa apertura e disponibilità a ciò che era ancora riconducibile alla categoria del “pubblico” in quanto mero regolatore -, alla funzione di valorizzazione capitalistica.

La cosiddetta globalizzazione è la somma di queste due strategie, il cui obiettivo è stato quello di assicurare margini di profitto crescenti e ritenuti adeguati (al di fuori di ogni scala oggettiva che di per sé non esiste, se non nella misura del contenimento della svalutazione del saggio di profitto) e indispensabili alla riproduzione sistemica.

Senza questi due nuovi spazi di azione (accompagnati dalla progressiva capacità del mercato di creare nuova domanda fittizia con appropriate strategie di costruzione identitaria dei singoli soggetti e quindi di determinazione della domanda da parte dell’offerta e – parallelamente – della conseguente compressione crescente dei diritti del lavoro grazie anche al ricatto costituito dalla competizione mercantile della forza lavoro), la valorizzazione capitalistica in termini di “adeguato e soddisfacente” tasso di profitto medio, non sarebbe stata raggiunta.

Ora, la ricomparsa di un limite naturale (causato dal virus) e dai suoi evidenti effetti di conferma della decomposizione dell’equilibrio neoliberistico, la riemergenza dello Stato – che è chiamato a riacquisire o a sostenere attivamente comparti strategici dal punto di vista sociale (sanità, cibo, industrie legate di volta in volta alla vocazione specifica dei territori, per esempio il turismo in Italia, e, quindi, come conseguenza, la ri-nazionalizzazione di alcuni settori centrali), determineranno per forza di cose una drastica riduzione del margine di profitto medio riservato al “libero mercato”, cioè al privato.

Lo spazio per le “libere forze del mercato” si contrae quindi, perché torna in scena un agente che deve garantire spazi di mercato “non libero”, ma piuttosto funzionale ad un nuovo equilibrio, ad una nuova stabilità. Essenzialmente per evitare il crollo sistemico.

La domanda è: quali effetti può produrre una situazione di questo tipo ?

E le grandi concentrazioni capitalistiche accetteranno questa nuova situazione? In che misura ?

Se immaginiamo che esso possa essere possibile, dovremmo dedurne che le elites globali siano disponibili ad innescare al proprio interno una dialettica che riesca a far pesare la bilancia verso questa soluzione. Una sorta di provvisoria ritirata strategica (o tattica ?) che consenta di salvare il core sistemico in attesa di un suo rilancio.

Il che significherebbe che una parte maggioritaria della composizione interna delle elites globali si predisponga ad accondiscendere ad una limitazione della propria potenza e ad un accordo (tattico o strategico ?) con lo Stato.

In cambio di cosa può avvenire una autolimitazione di questa potenza ? Probabilmente, nella fase che si apre, in cambio di un aumento della disponibilità di potere politico che va a ricollocarsi, dal mercato allo Stato.

Questo scambio dovrebbe avere una sua solidità, poiché il suo obiettivo è quello di mettere all’angolo la componente più regressiva, quella del “torniamo al prima come se niente fosse successo” – che è pregna di rischi – magari in attesa di un miracolo tecnologico-farmaceutico (non solo il vaccino, ma anche, per esempio, una scoperta che consenta di ridurre drasticamente le emissioni) oppure di un evento ingegneristico che ci conduca verso una dimensione post-umana – in senso genetico e culturale -, per cui cioè la specie diventi tendenzialmente impermeabile alle modificazioni indotte da sé stessa (e dalla natura), che consenta successivamente di recuperare la classica linea di sviluppo asintotale. Per quanto folle all’apparenza, vi sono certamente teorie di tink-tank globali alle prese con queste ipotesi.

Tutte queste possibilità possono essere sostenute da una accentuazione ideologica del fattore di “direzione”, di “competenza tecnocratica”, indispensabile per la ri-programmazione di una complessità di un grado maggiore della precedente, la quale contemplava solo in sub-ordine la funzione statuale diretta.

Adesso, la necessità di tenere sotto controllo la crescente complessità sistemica rende accettabile la devoluzione dei saperi di programmazione – che negli anni del neoliberismo è stata di esclusivo appannaggio dell’impresa – a poteri interni allo Stato. Complessità che, in questa ottica, lievita ulteriormente poiché tra le variabili da tenere sotto controllo ci saranno anche i processi di ri-programmazione parallela e competitiva tra gli Stati.

In questo caso, la questione da capire è: a), se tali saperi sono adeguati alla fase che si apre o b), non piuttosto adeguati alla semplice trasposizione di obiettivi di competizione tra sistemi a variabile tasso di integrazione Stato/Mercato.

Vi è cioè il rischio consistente di una riconfigurazione degli obiettivi statuali da obiettivi sociali ad obiettivi di ulteriore accentuata competizione tra sistemi.

E poi vi è un’altra considerazione da fare: in che misura le elites globali sono pronte a riconfigurarsi, anche parzialmente, come elites nazionali? E’ abbastanza probabile infatti che il gioco di scambio tra tassi di profitto medio ridotti e partecipazione a tassi di potere statuale aumentati, venga giocato dalle grandi concentrazioni multinazionali in modo del tutto analogo a quanto avvenuto precedentemente: cioè che la riduzione della capacità di direzione della libera mano del mercato con cui si sono esercitate le elites globaliste nella fase neoliberistica attraverso il ricatto del debito, per dirne una, possa esercitarsi, in questa fase, nella dislocazione delle loro tecnocrazie multinazionali, pro-quota in ogni situazione nazionale…rideterminando una nuova subalternità – oggettiva – delle singole capacità di direzione statuale, una volta condivisa tra di esse la strategia di fase da perseguire.

Si tratterebbe in questo caso, da parte della ridislocate elites, di una condivisione mirata di obiettivi di fase da perseguire. Una sorta di riproduzione – sui generis – dei poteri nobiliari di sangue blu con intrecci matrimoniali più o meno chiari e quindi della ridefinizione di una geopolitica il cui punto di equilibrio non è l’interlocuzione e il confronto (o magari la cooperazione) tra Stati, ma piuttosto la camera di compensazione tra gli interessi delle molteplici diramazioni nazionali delle confraternite delle elites già globaliste, ed ora, solo apparentemente e in vario grado, ri-nazionalizzate.

Questo nuovo equilibrio non ci affranca da rischi, come si può ben intendere, ma ci conduce in un territorio comunque tendente a politiche imperialistiche e a un ulteriore livello di competizione internazionale intrecciata di cui sarà molto difficile cogliere il bandolo.

Tutto cambia affinché nulla cambi, si potrebbe dire. O anche, il che è lo stesso, che la globalizzazione era stata costruita con la medesima logica, ma con una prevalente visibilità dell’elemento ideologico-propagandistico costituito dalla “libera mano dei mercati”; mentre quella che avanza sarebbe, diciamo così, più realistica e meno, ideologica…

Naturalmente questo scenario può essere co-determinato o influenzato democraticamente, possono esservi degli spazi di azione; ma bisogna capire se gli spazi di co-determinazione (dell’ipotesi n.2) godano di pari dignità e siano aperti o vengano prioritariamente limitati e sussunti a scenari che non mettano in discussione una congiunturale architettura che avrebbe come obiettivo centrale garantire una riproduzione – sotto nuove forme e nuovi standard di valorizzazione capitalistica a tassi di crescita molto più bassi della precedente – e in cui, quindi, lo Stato, ogni Stato, diventa garante pro-quota di questo generale ridimensionamento, restando con ciò invischiato nella dinamica di competizione globale intrecciata pubblico/privata.

E’ ovvio che in questo caso ne farebbero le spese le rispettive fasce di piccoli produttori e le masse lavoratrici ai quali entrambi si spiegherà per primo che la situazione esige una rideterminazione in termini di contenimento dei livelli di benessere /reddito, ecc. per assicurare il nuovo equilibrio competitivo tra sistemi paese ora a prevalente presenza statuale (cioè, con ammiccamento collettivo).

La conclusione del ragionamento sarebbe infatti il seguente: il sistema deve posizionarsi su un livello di consumo interno di risorse ridotto, mantenendo tuttavia integra la legittimità del meccanismo di valorizzazione. D’altra parte, il punto centrale della vicenda consisterà nel sostenere la tesi che il sistema precedente non è crollato in sé, ma solo per un fattore naturale esterno ad esso e che la fase di transizione è necessaria a riconquistare la belle epoque.

Una volta risolto il problema esterno potrebbe ricominciare a funzionare tutto come prima. Sarebbe dunque questo il patto da sottoscrivere, cosa già avvenuta diverse volte, pur in diversi contesti storici.

Le due diverse posizioni si confronteranno dunque sulla questione dei tempi e della velocità del riassetto, non sugli obiettivi finali del riassetto che, alla fine, risulterebbero essere i medesimi.

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Ma riprendiamo per un momento la riemersione di antiche e nuove evidenze:

La crisi da Covid-19 ha mostrato alcune cose apparentemente marginali, ma invece di grande rilievo; per esempio, ha mostrato che la omogeneizzazione sistemica del pianeta sotto il regime della produzione infinita, costituisce un vulnus oggettivo che favoriscel’irrompere di fattori (apparentemente) esterni.

La concentrazione di popolazione in grandi conurbazioni metropolitane funzionano un po’ come la riduzione della varietà in agricoltura. Un agente patogeno che, in una situazione di popolazione diffusa e meno concentrata non sortirebbe gravi conseguenze, si trova, suo malgrado, a sviluppare effetti disastrosi. Così come le polluzioni che sono un’altra conseguenza della concentrazione e probabilmente vettori dei patogeni.

La concentrazione di popolazione è un effetto della concentrazione produttiva e del libero movimento di capitali che le alimenta creando ammassi concentrati di ricchezza e parallele diffuse lande di marginalizzazione e impoverimento in altre aree. I grandi movimenti migratori sono solo il prodotto di questi squilibri.

La strutturazione delle rete di metropoli capitalistiche connesse in tempo reale che comandano il pianeta ha costituito il fattore determinante per l’espandersi rapidissimo della pandemia.

La divisione gerarchica tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, ha mostrato delle oggettive insostenibilità nel momento di crisi pandemica. Lavoro manuale marginalizzato in settori tuttavia strategici come la salute o la produzione alimentare si è manifestato invece come una delle colonne che sorreggono l’impalcatura, qualsiasi impalcatura.

La divisione gerarchica tra diversi settori produttivi e di servizi ad alta o bassa intensità di tecnologica e di manodopera, con le rispettive quote di reddito medio, ha mostrato in modo altrettanto evidente la sua limitata e relativa valenza. Questa gerarchia non ha alcun senso in un momento topico come quello della pandemia. Non ha dunque mai una valenza assoluta in sé, o rispetto ai sistemi, ma sempre relativa a contesti definiti dalla capacità di dominio di un ambito su un altro: si tratta in un certo senso di tautologie determinate dal dominio.

Questa divisione è anche un effetto della dinamica tra settori considerati maturi o non ancora maturi. Una “maturità” peraltro molto discutibile, dal momento che la privatizzazione di settori considerati maturi aveva costituito uno dei passaggi decisivi della globalizzazione…

Maturi dunque per chi ? Per una certa valorizzazione capitalistica che non aveva molto da raccogliere dalla produzione di mascherine o di alimenti di qualità rispetto alla produzione di tecnologie avanzate o del junk food; ma non per quelli riguardanti la produzione di farmaci per patologie di massa sulle quali era ed è possibile costruire business duraturi a tassi soddisfacenti. Ma anche questo assunto sta crollando anche se resisterà nei mesi a venire.

La definizione di settori strategici o meno, di ciò che è possibile privatizzare o meno, di ciò che è considerato lavoro con status privilegiato o meno, sono tutti concetti relativi a situazioni standard stazionarie in cui non si manifestano irruzioni di fattori “esterni”. (Qui stiamo sempre parlando prevalentemente dii paesi con economie “avanzate”, cioè le nostre, mentre in quelle “subalterne”, queste cose costituiscono evidenze inascoltate da tempo, ma hanno prodotto dinamiche sociali fortissime anche nei decenni della globalizzazione: autosussistenza, sovranità alimentare, rifiuto di entrare nel circuito del commercio internazionale sono stati gli asset delle rivolte contadine e del riemergere dell’indigenismo).

Tutta la scala e i gradi di valore diversi che si attribuivano ad attività e professioni, è saltata. Si è reso evidente che essa non era assoluta, ma concerneva solo una situazione specifica e stabile ritenuta “ottimale”.

Questa questione, corroborata dalla discussione riaperta tra ciò che è essenziale e ciò che non è essenziale, riapre uno spazio critico enorme e decisivo.

Emerge anche che la fine della storia umana – definita dallo spartiacque del crollo del muro – si era tradotta, a nostra insaputa, in fine della storia naturale, per cui persino la possibilità della manifestazione di un fattore esogeno alla società umana era stata cassata dalle tranquillizzanti prospettive del neoliberismo.

Salvo, negli ultimi anni, il riemergere sempre più pressante della questione ambientale, che però il New Green Deal, avrebbe tranquillamente risolto grazie a veicoli elettrici e risparmio energetico, ecc. senza porsi il problema, non solo dello stoccaggio delle batterie elettriche, ma neanche delle lean production globali che per assemblare un prodotto debbono lasciar transitare sugli oceani migliaia di porta-continer e petroliere super inquinanti soltanto per minimizzare i costi del prodotto finale, grazie ad una divisione internazionale del lavoro in cui continuano ad essere centrali i costi relativi della manodopera. E ovviamente continuando a scaricare sul pianeta i costi – sociali e globali – connessi a questi processi di produzione.

In agricoltura, la distruzione della varietà delle coltivazioni in tutti i paesi, ma in particolare nei continenti africano e latino-americano e in Asia, portate avanti dalle grandi corporation delle sementi transgeniche e degli annessi veleni diserbanti per assicurare la super produzione di poche colture da diffondere ovunque, o in zootecnia l’allargamento degli spazi di allevamento tramite disboscamento, il consumo di acqua che è legato a queste pratiche, e l’accaparramento di terre e acqua potabile, ecc. hanno costituito uno degli ambiti portanti dell’ ”equilibrio” neoliberista tra le multinazionali interconnesse della chimica, dell’agroalimentare, della cellulosa e del legname, con gli altri settori produttivi ad alta tecnologia, affermatesi negli ultimi decenni.

Mentre lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost con le conseguenze di produzione di ulteriore quote di gas serra, distruzione delle riserve idriche, con il rischio del riemergere di antichi agenti patogeni, ecc., costituiscono altrettanti ambiti di esercizio per la definizione di nuove rotte commerciali, di investimenti colossali nella gestione di un bene sempre più raro (l’acqua), e di mirabolanti potenziali investimenti nella chimica e della farmaceutica.

Tutto questo avveniva a bocce ferme, cioè in quello scenario di fine della storia – anche di quella naturale -, che le smisurate capacità del capitalismo potevano comunque tenere “sotto controllo”.

Il capitalismo che alle sue origini produceva soluzioni ad alcuni problemi delle società umane, si era riconvertito nel più straordinario sistema di business e di arricchimento sulle catastrofi che esso stesso produceva. E più produceva soluzioni ai suoi danni, più aggravava le catastrofi che produceva.

Siccome il luogo dove si fa business e dove si producono catastrofi è lo stesso, è abbastanza ovvio il termine della sua corsa almeno in quanto “elemento propulsivo”. Trasformare la terra e l’umanità in una pattumiera infettata non costituisce un gran risultato.

I suoi concetti portanti, come la concorrenza, la competizione, l’ottimizzazione finalizzati al profitto e al successivo investimento e al successivo profitto, appaiono adesso obsoleti.

Più di concorrenza e competizione appaiono socialmente più produttive la collaborazione e la cooperazione. L’ottimizzazione rispetto al sociale è più produttiva dell’ottimizzazione meramente economica legata al profitto.

Per dirla in un altro modo, il valore d’uso è manifestamente superiore al valore di scambio.

La responsabilità, quella risorsa scarsa tra gli uomini, appare oggi come una necessità, quindi una esigenza oggettiva, non più soggettiva.

Per quale motivo si sono sacrificati centinaia di medici e infermieri ? Per un salario migliore ? No, lo hanno fatto per responsabilità oggettiva, collettiva. Non c’era altro da giocare. Il capitale era abbondantemente vacante. Latitante. Inesistente. Era manifestamente una invenzione, un trucco.

E’ anche emerso che la cooperazione tra saperi è la sola che può consentire di individuare i farmaci necessari o il miraggio del vaccino. Il copyright appare destituito di senso. Anzi è un enorme ostacolo. Al suo posto possiamo e dobbiamo fornire medaglie al valore.

Cioè un infinito riconoscimento alle migliori qualità umana, quelle per cui da sempre le società si tengono in piedi, al di là del meccanismo di riproduzione della forza lavoro: responsabilità, condivisione, solidarietà, dono.

Quando queste qualità sono espresse da singoli, vengono ricondotte ad un ambito di coscienza individuale, ma in realtà sono qualità comuni e collettive, pur in ambiti determinati, perché si danno sempre nell’interazione tra soggetti, cioè sono pratiche e prodotti sociali.

La consapevolezza che queste qualità sono indispensabili per tenere in piedi l’edificio e che nulla hanno a che spartire con la logica del profitto inaugura potenzialmente un altro pensiero, una nuova città del sole.

mercoledì 10 giugno 2020

Covid-19: Nel riprogettare il Paese questa volta non si dimentichi l’emigrazione italiana

 


 

 

di Rodolfo Ricci *

Nelle diverse occasioni di uscita dalle crisi che hanno sconvolto l’Italia fin dalla sua unità, l’emigrazione è stata una delle variabili centrali: nel senso – molto negativo – di usarla come un decongestionante, come una sorta di antinfiammatorio, agevolandola e addirittura di incentivandola in modo mirato. E’ avvenuto alla fine dell’800 e all’inizio del ‘900 e, ancora in modo esplicito, nel secondo dopoguerra, quando si invitarono le masse inoccupate e contadine a “imparare una lingua e andare all’estero”.

Forse in pochi lo ricordano, ma anche a ridosso del nostro presente, la cosa si è di nuovo ripetuta, solo 8 anni fa, con il messaggio lanciato ai giovani italiani da Mario Monti, in sede di investitura a Presidente del Consiglio, “a prepararsi ad una nuova mobilità nazionale ed internazionale”. Cosa che anche questa volta è puntualmente avvenuta, portando all’estero, nell’arco di un decennio quasi 2 milioni di persone e un altro milione dal sud al nord.

Sugli effetti di questo ultimo esodo si è parlato poco e talvolta a sproposito, individuandone la novità nella brillantezza dei “cervelli in fuga” e coniando perfino nuovi termini sostitutivi dell’antiquata “emigrazione”, con la libera mobilità degli “expat”.

Ma sempre di emigrazione si è trattato, a rinverdire quella antica caratteristica del sistema Italia a non sapere valorizzare al suo interno la risorsa fondamentale: il lavoro e l’intelligenza delle persone in generale e quella delle nuove esuberanti generazioni in particolare.

Carlo Levi in un famoso discorso al Senato di 50 anni fa, diceva che si trattava di una questione strutturale, legata all’arretratezza del nostro capitalismo e delle sue classi dirigenti istituzionali e politiche le quali, piuttosto che modificare in senso progressivo la struttura di classe del paese per un sviluppo più giusto e equilibrato, preferiva far evacuare fuori dal meridione e all’estero ciò che considerava sovrabbondanza di popolazione, senza neanche darsi la briga di calcolare la perdita di patrimonio umano di questa scelta che, solo nell’ultimo decennio, è ammontata a svariate decine di miliardi di Euro all’anno ed ha comportato una flessione del Pil, l’accelerazione del decremento demografico e i paralleli ed ovvi vantaggi strutturali per le aree e i paesi di arrivo dei nostri nuovi emigrati, con i quali noi dovremmo “competere”.

Ora, con l’ennesima crisi targata Covid-19, da più parti, con diversa accentuazione e sensibilità e anche con vari equilibrismi e una certa confusione, si prova a ripensare tutto. Forse si tratta dell’ultima chance o, comunque, i termini di uscita da questa ennesima crisi definiranno il profilo da ora fino al 2050.

E’ da auspicare con forza che questa volta venga messa da parte definitivamente l’obsoleta soluzione di lasciare partire la gente, sia perché, come abbiamo visto, le decine di migliaia di medici e infermieri che abbiamo in silenzio lasciato emigrare verso l’Inghilterra o la Germania negli ultimi 15 anni sarebbe bene che restino o tornino da noi, sia perché, per il nuovo sviluppo orientato ad un new green deal ecologicamente sostenibile, abbiamo bisogno dei ricercatori (che abbiamo formato a nostre spese in tanti settori), sia perché le start-up e tutto il ventaglio di nuova imprenditoria è bene che nasca e si sviluppi e crei lavoro sul suolo natio, sia infine, perché è fuori da ogni ragionevole luogo che laureati e diplomati nostrani vadano a sperimentare il precariato oltre confine contribuendo, tra l’altro, al dumping sociale sul costo del lavoro su cui è costruita la ossessiva dinamica competitiva tra sistemi produttivi, in Europa come altrove.

Per quanto riguarda l’Europa di Schengen, vale la pena ricordare, a scanso di equivoci, che “la libera circolazione” è libera se non è forzata ed unidirezionale, altrimenti è una frottola bella e buona.

L’invito è dunque quello di valutare la questione emigratoria all’interno di ogni passo per il “rilancio” che si farà con il decisivo intervento (era ora e speriamo) di programmazione dello Stato nelle sue varie articolazioni.

La crisi da coronavirus ha costretto a tornare in Italia o nelle regioni di origine decine di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro che avevano nelle regioni del nord o all’estero. Sarebbe il caso di conoscere il numero complessivo (alcune stime parlano di oltre 100 mila persone rientrate nei tre mesi di lock down), visto che soltanto in Calabria sembra che ne siano tornati almeno in 20mila. E’ utile ricordare, tanto per fornire un elemento di confronto, che al 1° gennaio 2019, secondo l’Istat, la popolazione residente in Calabria è di 1,95 milioni, mentre i calabresi all’estero sono 413 mila. In Sicilia, su 5 milioni di residenti, abbiamo 768 mila siciliani all’estero.

Dal 2008 al 2017, sempre secondo Istat/Aire, si sono trasferiti nel centro-nord quasi un milione di persone, con un saldo negativo di – 430 mila persone. Invece verso l’estero sono partite 750 mila persone, con un saldo netto negativo di circa – 417 mila persone. Secondo diversi istituti di ricerca e associazioni dell’emigrazione che hanno fatto una media ponderata tra i dati Istat e i dati di accesso registrati dai maggiori paesi di emigrazione, la parte che va all’estero è invece tra il doppio e le tre volte il dato italiano. In questo caso il saldo negativo verso l’estero, negli anni indicati, sarebbe tra 1 e 1,25 milioni.

Sarebbe dunque molto opportuno che né i pochi rientrati, né altri, siano costretti a ripartire, ma che abbiano la possibilità di trovare occasioni di lavoro immediato e dignitoso nei luoghi di origine.

Le Consulte Regionali dell’Emigrazione dovrebbero attivarsi immediatamente per porre la questione e svolgere la loro funzione istituzionale prevista dalle diverse legislazioni regionali.

Ed è da auspicare che gli stessi emigrati che stanno tornando si organizzino per rappresentare in autonomia i loro bisogni e i loro diritti all’interno dei movimenti che, un po’ dovunque, chiedono un cambio di passo delle politiche sociali e di sviluppo locale.

Poi c’è il versante di coloro che all’estero sono rimasti: dei 60 milioni di italiani, secondo i dati delle anagrafi consolari 6 milioni sono stanzialmente all’estero. Solo 15 anni fa erano 3 milioni. Ma poi vi sono anche quelli non registrati nelle cancellazioni di residenza che, come accennato, sono un altro milione e più.

Stiamo parlando dunque di oltre il 10% della nostra popolazione, in possesso di cittadinanza. Si tratta di una regione fuori confine, seconda solo alla Lombardia per dimensioni, ma con vincoli forti e stabili con l’Italia, semplicemente perché sono italiani.

Cosa si fa, come si coinvolge questa presenza diffusa ai quattro angoli del pianeta nella riprogettazione del paese? Non si tratta forse di una occasione straordinaria per la costruzione di moderne ed efficaci relazioni, di mutuo e reciproco riconoscimento di diritti e di potenzialità che possono essere messe in campo?

In campo dove? si dirà…: intanto al sud, intanto nelle ubique aree interne di tutto lo stivale, in via di avanzato spopolamento, intanto nella promozione di un modello di turismo sostenibile, del made in Italy in generale, nel sostegno all’export delle piccole e medie imprese, delle produzioni locali e tipiche, insomma, in ogni ambito di relazioni internazionali in cui il sistema Paese, le sue regioni, le sue aree svantaggiate, dovranno necessariamente esercitarsi.

E come si fa? con quali soldi? visto che dobbiamo prepararci di nuovo ad essere parsimoniosi e attenti. Su questo vorrei essere più netto: coinvolgere seriamente l’emigrazione italiana in queste politiche e misure attive, costa una frazione di quanto costa ampliare le prerogative di tanti carrozzoni onnicomprensivi o di altri da mettere in piedi per alimentare, magari, spartizioni e clientele. Qui le istituzioni e burocrazie centrali e regionali dovrebbero fare attenzione: hanno a disposizione un patrimonio multiculturale di giovani generazioni italiane che è pronto a diventare un attore del rilancio del paese. Ed hanno anche un’occasione: quella di mettersi alla prova su efficienza e ottimizzazione di una quota di spesa pubblica evitando di spendere in modo ridondante e inopportuno, oppure in modo insufficiente, visto che da decenni non riusciamo a spendere la quota che ci spetta di Fondi comunitari…

E con chi si ragiona su tutto ciò? Questi 6 o 7 milioni di italiani all’estero hanno le loro rappresentanze, dimenticate o ignorate da tempo, ma ce le hanno: quelle nazionali e quelle regionali. E poi hanno le loro organizzazioni, nazionali e regionali, che in tempi più sensati degli attuali sono state quantomeno audite. Ecco, almeno riprendetevi il tempo di ascoltarle. Potreste scoprire, o riscoprire, cose dimenticate o completamente ignorate. Nella permanente miopia, per usare un eufemismo, che ha caratterizzato oltre un secolo di mediocre storia nazionale.

 

*) Segr. FIEI (Federazione Italiana Emigrazione Immigrazione), Vice Seg. del CGIE

 

FONTE: https://emigrazione-notizie.org/?p=32035