lunedì 16 luglio 2018

Tito Boeri, le migrazioni e l’INPS


  

 

di Rodolfo Ricci

Le intrusioni del Presidente dell’INPS Tito Boeri nella discussione politica nazionale non sono una novità; già nella precedente legislatura egli si era esercitato su diverse questioni ogni qual volta alcune decisioni politiche potevano avere ricadute sulle prospettive di tenuta dei bilanci dell’Inps sia a breve che a medio temine.

La tenuta dei conti della più importante fonte di ingressi e di spesa del bilancio pubblico non è evidentemente cosa secondaria e da questo punto di vista, fare da guardiani affinché non si creino situazioni di insostenibilità non è in sé cosa biasimevole. La questione, da un punto di vista politico, è a quale prezzo i conti vengano fatti quadrare e se, da un punto di vista etico o semplicemente di giustizia sociale, la quadratura è ammissibile, condivisibile e fondata. Per altro verso è interessante verificare quali dati e quali parametri vengano utilizzati per sostenere le diverse tesi che si confrontano.

Senza scendere nella cronaca degli ultimi giorni sul c.d. “Decreto Dignità” e tralasciando gli ammonimenti a non toccare la riforma Fornero (i cui esiti milioni di persone conoscono più che bene e tutti gli altri conosceranno a breve) che costituì la pietra miliare del governo dei mercati di Mario Monti, è interessante in questo caso soffermarci sulla discussione tra tenuta dei conti INPS e la dominante questione immigrazione su cui si sta giocando buona parte della battaglia politica di questi mesi.

La tesi che ci permettiamo di sostenere è che in questa discussione non vi è nulla di oggettivo, nulla di eticamente condivisibile, ma molto di ideologico o, per stare alla definizione odierna di Boeri, tutta la discussione è caratterizzata da un ecumenico negazionismo (per di più a ampia insaputa) e a… 360 gradi.

 

 

Cos’è che si afferma e cos’è che si nega, cos’è che si ignora per ignoranza o malafede.

 

Si dice, ad esempio, che gli immigrati debbono entrare poiché già oggi sono loro – e lo saranno ancora di più in futuro – a sostenere il nostro sistema pensionistico, in un contesto di declino demografico e invecchiamento della popolazione nazionale.

Allo stesso tempo non si dice che, dal momento che la Legge Fornero ha innalzato a 20 anni il limite minimo contributivo per poter accedere alla pensione di vecchiaia, chi si situa sotto questa quota non avrà, di norma, diritto alla pensione. In questa categoria rientrano milioni di lavoratori immigrati (e nostrani), i cui contributi silenti (ma che gridano vendetta), vengono semplicemente incamerati dall’Inps senza alcuna contropartita. Altro che sistema contributivo !!

Si tratta di 7-10 miliardi di contributi che non saranno mai restituiti, o solo in minima parte. Utilizzarli è estremamente complesso per i cittadini italiani, praticamente impossibile per un lavoratore o lavoratrice immigrata che rientri al suo paese, soprattutto se non vi sono accordi bilaterali tra l’Italia e il paese di provenienza. Certo, a queste condizioni, la presenza di immigrati, in particolare a tempo limitato, è una vera manna per il bilancio dell’Inps. (Ma anche senza di loro e sarebbe bene che gli italiani lo sapessero).

Un altro esempio: lo scorso anno Tito Boeri ha tentato una sortita sul versante italiani all’estero; secondo Boeri, l’Inps pagherebbe troppe pensioni all’estero. Si tratta di circa 400mila pensionati nati in Italia e trasferitisi all’estero prevalentemente negli anni ’50-’70. La situazione, secondo l’Inps è aggravata dal fatto che negli ultimi anni sta crescendo l’emigrazione di pensionati italiani che si trasferiscono in alcuni paesi europei ed extraeuropei perché il potere d’acquisto delle nostre basse pensioni consente loro di vivere meglio altrove, piuttosto che in Italia. Boeri è arrivato ad ipotizzare che le pensioni possano essere erogate solo se si è residenti sul territorio nazionale, in modo, si è detto, che il Pil italiano non ne venga compromesso. Queste considerazioni hanno scatenato i rappresentanti delle comunità italiane all’estero: Tito Boeri ignorava, a loro parere, la storia e le ragioni dell’emigrazione italiana e allo stesso tempo ignorava il fatto che il pareggio del bilancio pubblico del nostro paese è stato per un secolo intero consentito o quantomeno fortemente supportato da miliardi di dollari di rimesse dei nostri connazionali che hanno contribuito al Pil nazionale con investimenti diretti, oltre che contribuendo alla penetrazione del made in Italy (cioè del nostro export) nei rispettivi paesi di arrivo. Ma allo stesso tempo, la minaccia di Boeri individuava uno scenario finora inimmaginabile: la pensione legata alla residenza obbligatoria … e alla negazione della libertà di movimento. Un bel progresso in termini di liberalismo !!

Un ultimo esempio, ancora più attuale: Il Presidente dell’Inps, mentre si rammarica della diminuzione di flussi di immigrazione verso l’Italia, non si scandalizza affatto che centinaia di migliaia (anzi milioni) di giovani italiani abbiano ripreso negli ultimi dieci anni, la via dell’emigrazione verso il nord Europa e altri paesi extra-europei. Utilizzando le sue argomentazioni di cui sopra, gli sembra evidentemente normale che i nostri giovani vadano a rinsaldare i bilanci degli istituti previdenziali di altri paesi affetti, come il nostro, da decremento demografico: cioè che vadano a pagare le pensioni a tedeschi, inglesi, svizzeri, francesi, olandesi, ecc.. Neanche si preoccupa che il trasferimento (enorme in termini di patrimonio) di questo capitale umano formato a spese dello Stato e delle famiglie italiane vada a implementare il Pil di altri paesi, quindi a ridurre il nostro e, conseguentemente, a rendere ancora più difficile il recupero del rapporto Debito-Pil che grava sull’Italia, cosa che dovrebbe costituire, per bocca degli economisti come Boeri, l’obiettivo principe su cui convergere.

Sono alcuni esempi che danno l’idea della schizofrenia logica e della patologia specialistica “da bilancio” che attanaglia non solo Boeri, ma gran parte della classe dirigente del Paese, che sia al governo o che sia all’opposizione o che sia classe dirigente istituzionale. Soprattutto colpisce l’incapacità di comprendere (e la sapienza nel confondere) cause ed effetti, pagliuzze con travi.

Il Jobs Act fu introdotto dal governo Renzi (come il Pareggio di Bilancio in Costituzione) sotto suggerimento della UE a direzione mercantilista, del  mainstream economico globale (e dei suoi adepti nazionali), con la convinzione che per attrarre maggiori investimenti dall’estero bisognava offrire migliori condizioni al mondo delle imprese; cioè riducendo i diritti dei lavoratori e mettendo sotto ulteriore pressione i salari attraverso la precarizzazione del mondo del lavoro. Questi geni della politica non si erano resi conto che nel frattempo, fin dal 2008 era ripreso lo storico esodo italiano alla ricerca di migliori salari, di maggiori diritti e di minore, almeno relativa, precarietà, verso l’estero (che è arrivato, dal 2013 ad oggi a circa 300mila persone all’anno). Dunque che la medicina aggravava le condizioni del paziente. Come dimostra anche l’ulteriore crescita di debito pubblico. Si cercavano investimenti dall’estero e il risultato è stato quello di incentivare l’emigrazione di capitale umano nostrano.

Oggi Boeri dice che il “Decreto Dignità” (peraltro limitato e che subirà rimaneggiamenti vari a partire dalla reintroduzione dei Voucher per accontentare l’imprenditoria di 2° classe) implica la perdita di 8mila posti di lavoro all’anno. E le pagine dei quotidiani nazionali sono zeppi di polemiche sulla vicenda. Quanta carta sprecata !

C’è anche qualcuno che è pronto a farne il perno della nuova opposizione e qualcun altro che rilancia la discussione (a causa del coinvolgimento tematico dell’immigrazione) in termini di progressismo umanitario sui social. Che la situazione fosse tragica nessuno lo ignorava, che sia penosa è certo.


giovedì 12 luglio 2018

Emigrazione in Europa: declino demografico, desertificazione e polarizzazione tra centro e periferie. La grande falsificazione della discussione in corso.


 

Relazione introduttiva del vice segretario del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, R. Ricci alla discussione sulla Nuova Emigrazione Italiana, tenutasi alla Farnesina nell’ambito dell’Assemblea Plenaria del CGIE del 2018.  Nella relazione sono contenuti dati significativi sugli enormi flussi di emigrazione interna all’Unione Europea succedutesi nell’ultimo trentennio e sulle tendenze dei prossimi decenni, che implicherebbero una radicale revisione della discussione sui movimenti migratori: l’equivoco della cosiddetta “libera circolazione” nasconde la nascita di una nuova geografia caratterizzata da emigrazione forzata e squilibri insostenibili che costituiscono la ragione principale del declino dell’Unione Europea e dell’emergere di xenofobia e razzismo: i flussi immigratori all’interno della UE sono costituiti solo per un terzo da immigrazione extracomunitaria e per ben due terzi da immigrazione intra-comunitaria.

“Mondo del lavoro e italiani all’estero. Nuova mobilità, incremento delle partenze, legge del controesodo”

Introduzione di Rodolfo Ricci, V.s.g. del Cgie

Ministero degli Esteri – Sala delle conferenze internazionali

5 luglio 2018

 

 

Caro Segretario, care e cari consiglieri,

la questione della nuova emigrazione italiana è una delle questioni centrali per il nostro lavoro. Credo che il CGIE debba insistere nel puntuale monitoraggio della sua evoluzione e dei problemi che essa comporta, come peraltro sta facendo fin dal 2013, quando approvò all’unanimità un ordine del giorno che è ancora oggi pienamente attuale.

Da allora, purtroppo, il nostro allarme reiterato sulla crescita dei flussi in uscita, prevalentemente giovanili e con livelli di formazione mediamente elevati, non è ancora stato preso in seria considerazione dalla politica e dalle istituzioni del nostro paese; salvo la breve parentesi dello scorso anno con il rapporto instauratosi con il precedente Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, i cui impegni sul versante da noi richiesto – (misure di orientamento alla partenza e di accompagnamento nei paesi di arrivo che consentissero di evitare o quantomeno di ridurre le situazioni di marginalità e di precarietà che si registrano dovunque e che coinvolgono migliaia di giovani e meno giovani, ivi incluse intere famiglie) – sono ancora tutti da assolvere.

Nel frattempo la nuova emigrazione è continuata a crescere stabilizzandosi sulla cifra, oramai ampiamente condivisa da centri di studio e ricercatori, di circa 300mila persone all’anno che lasciano il nostro paese, prevalentemente verso le mete nord europee, ma anche verso nuove destinazioni asiatiche, del nord e sud America e dell’Australia. Sono numeri analoghi a quelli dell’emigrazione di massa degli anni 60 del ‘900.

Si tratta, come si vede, di un’entità che è il doppio degli attuali arrivi di profughi e migranti economici, cioè dell’immigrazione nel suo complesso, su cui si concentra la discussione politica e istituzionale nei modi che sappiamo.

La presenza italiana all’estero, riferendoci ai dati delle anagrafi consolari, ha ormai superato nettamente lo stock di immigrazione (che è di circa 5,2 milioni di immigrati), raggiungendo i 5,7 milioni di emigrati, con un aumento del 100% negli ultimi 15 anni e di oltre un milione e centomila solo negli ultimi 5 anni. A questi è verosimile che bisognerebbe aggiungere un altro milione ed oltre di giovani e meno giovani che, per ragioni a noi note, non si iscrivono all’Aire, né vengono censiti dai consolati. Stiamo dunque parlando di circa 7 milioni di italiani tra vecchia e nuova emigrazione, cioè di oltre il 10% della popolazione italiana. La somma di immigrati ed emigrati raggiunge invece circa il 20% dell’intera popolazione del paese, a conferma che l’Italia è un crocevia migratorio con caratteristiche uniche nel panorama europeo, mentre si situa all’8° posto nel mondo per entità di flussi di emigrazione in uscita.

Di fronte a questi dati è davvero sorprendente e per certi versi incomprensibile che la discussione pubblica sui movimenti migratori si sviluppi nei modi che conosciamo e che, allo stesso tempo, si ignori completamente la dimensione della nuova emigrazione italiana che, al di là del nostro ambito di rappresentanza, costituisce una grande questione nazionale, di cui però il paese non si occupa: “quelli che se ne vanno”, una volta fuori dai confini nazionali, sono ampiamente dimenticati.

Credo che il Cgie debba adoperarsi per contribuire a cambiare questa situazione. A questo proposito vi propongo che, anche sulla base dei contributi che ascolteremo dal Prof. Matteo Sanfilippo, dalla Prof.ssa Maria Immacolata Macioti e dal Prof. Enrico Pugliese che abbiamo invitato e che ringraziamo per la loro presenza, il Cgie, predisponga un dossier sulla nuova emigrazione italiana, con un compendio delle nostre richieste e proposte, da far pervenire alle istituzioni del paese, al Governo, al Parlamento, ai Ministeri competenti, alle Commissioni Parlamentari, ai gruppi e singoli parlamentari, alle forze politiche e sociali del paese, come prevede peraltro la Legge istitutiva del Cgie.

Far conoscere l’entità e le caratteristiche della nuova emigrazione può anche costituire un elemento importante per consentire una discussione pubblica sui fenomeni migratori più equilibrata e più fondata di quella a cui stiamo assistendo, sia nel nostro paese, sia a livello europeo.

Recentemente, circa due settimane fa, è stato pubblicato sul periodico Le Monde Diplomatique nelle varie edizioni nazionali, un dossier sull’evoluzione demografica e sui movimenti migratori in Europa. Si tratta di uno studio realizzato da ricercatori francesi estremamente significativo e per molti aspetti inquietante. (“Dossier: Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde Diplomatique, Giugno 2018)

Dallo questo studio emerge che negli ultimi trenta anni, a causa del combinato disposto di decremento demografico e di nuova emigrazione, la popolazione di quasi tutti i paesi dell’est europeo e dell’Europa mediterranea si è ridotta drasticamente: l’Ucraina, ad esempio, ha perso circa il 20% della sua popolazione (9 milioni di abitanti), la Romania, il 14% (3,2 milioni), la Moldavia circa il 17%, la Bosnia il 20%, la Bulgaria e la Lituania circa il 21%, la Lettonia oltre il 25%. I paesi dei Balcani, pur avendo un incremento demografico positivo, hanno registrato tassi di emigrazione enormi, fino al 37% dell’Albania. I tassi di emigrazione censiti in questi paesi sono superiori a quelli africani e si situano mediamente tra il 10 e il 18% delle rispettive popolazioni.

Nello stesso periodo, i paesi centro europei (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Gran Bretagna) hanno visto crescere o stabilizzarsi la loro popolazione grazie essenzialmente a questi movimenti inter-europei, i quali costituiscono i due terzi del complesso dei movimenti migratori (solo un terzo proviene infatti da paesi extraeuropei): negli stessi ultimi 30 anni, la Francia è cresciuta di 9 milioni di abitanti (la stessa quantità persa dall’Ucraina, che trenta anni or sono aveva più o meno la stessa popolazione), mentre la Germania ha avuto un saldo immigratorio positivo colossale: 10 milioni di persone, in gran parte di lavoratori immigrati provenienti, per due terzi, da altri paesi europei. Per mantenere stabile la sua popolazione sugli attuali livelli, la Germania prevede di far entrare nei prossimi 30 anni, altri 20 milioni di lavoratori, in modo da ottenere un saldo positivo di ulteriori 10 milioni di persone.

I paesi mediterranei, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno contenuto parzialmente la perdita di popolazione solo grazie all’arrivo di immigrazione prevalentemente dall’Africa, dall’America Latina e dal Medio Oriente, mentre hanno ceduto consistenti flussi di emigrazione agli stessi paesi del centro nord Europa. L’Italia, come ha sostenuto Enrico Pugliese nel suo ultimo libro “Quelli che se ne vanno” è diventata una sorta di crocevia migratorio, con arrivi dalla costa sud del Mediterraneo e partenze verso il nord Europa che, dal 2013 in poi, risultano, come detto, nettamente superiori agli arrivi.

Sono evidenti in queste cifre, la profondità degli squilibri economici, sociali e territoriali a livello continentale che, in mancanza di interventi, sono destinati ad aumentare. Squilibri improvvidamente sottaciuti e la cui tendenza sta disegnando un nuova geografia. La sostenibilità del quadro comunitario risulta molto improbabile se si pensa che negli scenari che vengono presentati, paesi e territori già aggrediti da forte decremento demografico ed emigrazione, sono destinati a perdere, già nel prossimo decennio ulteriori quote di popolazione attiva: nel 2030, “un quarto della popolazione della Croazia potrebbe scomparire”. Paradossalmente, anche i Länder della ex Germania Orientale si vedrebbero ulteriormente svuotati di popolazione a vantaggio delle regioni dell’ovest del paese che hanno già aspirato circa il 20% della sua popolazione dopo la riunificazione.

Per l’Italia gli scenari sono altrettanto drammatici: lo Svimez, fin dal 2015 ha previsto la perdita di 5,5 milioni di persone nel sud del nostro paese al 2050-2060. Recentemente l’Istat ha addirittura aggravato questa previsione portandola a circa 7 milioni di persone per l’intero paese, alla stessa data.

Le prospettive italiane risentono anch’esse di movimenti di emigrazione interna da sud verso nord che si aggiungono a quelli verso l’estero; il meridione ne paga e ne pagherà quindi le maggiori conseguenze.

Già oggi ci troviamo di fronte a situazioni impressionanti che riguardano diverse  aree interne dell’appennino: da uno studio realizzato lo scorso anno da Carmine Nardone e Grazia Moffa (Cedom Salerno), in diversi paesi nella fascia del Beneventano fino ai 10.000 residenti, si è registrata una perdita di popolazione che varia tra il 30% e il 35%, solo nel breve spazio di tempo del quinquennio 2011-2016.

Siamo di fronte a dimensioni davvero ragguardevoli, rispetto alle quali la politica appare del tutto assente. Sia a livello nazionale che europeo. Gli effetti che possono discendere da questa evoluzione  sono tragici per i territori e le società coinvolte dai nuovi  esodi, ma altrettanto significative saranno le dinamiche che coinvolgeranno i paesi accettori dei nuovi flussi.

Anche la crescita di xenofobia e razzismo in Europa è in buona parte un esito di questi fenomeni. E’ paradossale notare come la loro intensità si manifesti maggiormente nei paesi e nelle aree coinvolte da flussi emigratori piuttosto che da flussi immigratori. Un esempio è costituito dai paesi del cosiddetto Patto di Visegrad e un altro da ciò che accade nei Länder della Germania dell’est rispetto a quelli dell’ovest.

Sono cioè gli enormi squilibri economici e sociali ad alimentare e a sostenere la nuova (ma antica) narrazione politica alla conquista dell’egemonia in tutta Europa. Su questo e su tutto il resto che ne consegue, la riflessione dovrebbe essere profonda, come altrettanto profonda dovrebbe essere l’inversione di tendenza richiesta alle istituzioni e alla politica. Sono il declino economico e il degrado sociale in interi paesi e territori e soprattutto la mancanza di speranza in un diverso futuro a creare rancore e risentimenti, chiusure identitarie e nuovi muri.

Eludere una discussione sulle reali cause di questi esodi e dei decrementi demografici che li accompagnano dentro la civile Europa non contribuisce a emancipare la discussione pubblica, anzi ne aggrava i termini con conseguenze sempre più gravi.

 

 

Rodolfo Ricci

Roma 5/7/2018